L’improvvisa
pandemia da Covid 19 ha messo in evidenza alcuni discrasie di questo nostro
paese, tra le quali quelle che riguardano i rapporti tra poteri dello Stato e
poteri delle Regioni. Sono questioni
serie che la politica dovrà sanare rapidamente per migliorare l’efficienza pubblica
nella emergenza e anche nella gestione ordinaria, ma che, mi rendo conto, vanno politicamente
in senso contrario sia alle attuali autonomie sia al loro preoccupante
ampliamento.
L’edilizia
pubblica è stata una delle vittime di queste contradizioni e separazioni di competenze,
diventate ad un certo punto negli anni novanta solo scelte regionali, senza
controllo e al di fuori di ogni possibile piano nazionale di sostegno che non fossero
i bonus edilizi per le famiglie in difficoltà.
Il
picco di tale de-responsabilizzazione e inesistenza di regole è stata la distribuzione
tra Stato e Regioni dei residui fondi Gescal, un tesoretto di circa 11 miliardi
di euro, attuato in due anni di trattative senza uno straccio di impegno cogente
finalizzato ad utilizzare quei soldi, trattenuti ai lavoratori, per costruire o
riqualificare case pubbliche. Ogni Regione si è comportata secondo i suoi
interessi e poche, tra cui la Lombardia, l’Emilia Romagna, hanno investito in
edilizia pubblica.
La
dismissione dello Stato è derivata da alcune valutazioni e deduzioni sbagliate. L'affidamento alle Regioni della edilizia pubblica è stato un atteso provvedimento politico purtroppo privo di una valutazione sul
tempo lungo delle conseguenze sociali. Basti pensare alle ripercussioni
economiche negative sulla ricerca di abitazioni a buon mercato accadute in
seguito alla crisi finanziaria del 2008 che ci aprono uno scenario attuale
assai grave. L’annullamento della
costruzione di case pubbliche attuato 30 anni fa non ha tenuto in
considerazione le differenze territoriali tra le due Italie. Infatti la
valutazione che le case pubbliche non fossero più una necessità popolare perché
quasi il 70 % delle famiglie italiane possedeva una casa era viziata dal fatto
che quel dato medio oscurava il dato del solo Sud che si aggirava invece al 50%
e quindi ancora bisognoso di alloggi sociali.
L’altro
elemento che ha inciso negativamente è stato l’impoverimento del ceto medio a causa
della crisi del 2008 che ha generato grandi difficoltà nel trovare case a buon mercato
da affittare. La sperimentazione legislativa partita nel 2009 di far fare case private a prezzo
calmierato alle Fondazioni Bancarie insieme con altri Enti privati, ha prodotto
in dieci anni circa 6000 alloggi di Social Housing dei 20.000 inizialmente previsti:
troppo poco per un programma nazionale che va assolutamente ora rimodulato e
ampliato. Andrebbero riviste le regole
del Social Housing, maggiore velocità di realizzazione, meno burocrazia, maggior
stabilità nell’iter progetto/realizzazione/gestione e migliore redditività; ma
soprattutto minor costo dell’affitto che solo un nuovo sostegno pubblico può
garantire. Bisogna guardare alle esperienze significative di Social Housing in
Italia, tutte localizzate al Nord, in comuni come Milano, per dare vita ad una
sinergia pubblico-privata che superi le difficoltà di un Sud che non riesce a
stare al passo. (A Napoli il Banco di Napoli aveva provato a creare una Fondazione,
ma non ebbe successo operativo).
L’indispensabile
aumento della realizzazione di alloggi dipende dalla necessaria attivazione di accordi
pubblico-privati, all’insegna di una partecipazione attiva tra Comuni, Regioni
e Fondazioni bancarie. Una politica di questo tipo è certamente fattibile nell’
immediato e potrebbe avviare un processo positivo, ma non miracoloso, di una
nuova stagione di edilizia privata sociale garantita in parte dallo Stato,
ricordando che per avere un alloggio pronto all’uso ci vogliono perlomeno 4/5
anni di tempo. Non penso che questa politica debba essere legata solo ad un approccio
emergenziale. Credo che invece possa diventare, dopo verifiche, un programma di
lunga durata che può ridimensionare di molto la necessità dello Stato di
costruire e gestire in proprio le case pubbliche, indirizzando i suoi interventi assistenziali,
aperti a varie modalità, verso famiglie disagiate e bisognose, non in grado ad
accedere ad una casa di Social Housing.
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