sabato 15 gennaio 2011

Periferie modello Detroit

Si sta attivando un dibattito pubblico molto interessante sui temi dell' urbanistica della città che ruota su due domande fondamentali: quale idea di città deve guidare i cambiamenti necessari e quale periferia vogliamo e possiamo proporre. Sforzandosi di prefigurare scenari possibili, esso dovrà approfondire le ragioni di una mancanza di risultati nonostante un preciso e motivato piano regolatore. G li obiettivi del piano erano semplici, nessuna espansione edilizia, riqualificazione del tessuto esistente e del verde e soprattutto dell' immensa periferia formatasi nel dopoguerra e riconversione delle aree dismesse. Difficile dire che percentuale è stata raggiunta rispetto a questi obiettivi, ma comunque le condizioni di vivibilità sono peggiorate e lo sviluppo basato sulla riqualificazione non c' è stato. Abbiamo continuato a mandar via coppie giovani al ritmo di oltre 5000 persone l' anno, senza migliorare il verde e accumulando ulteriore fabbisogno di case. Del resto non riuscendo a realizzare o riqualificare grandi quartieri in città e nemmeno fuori di essa perché ogni Comune non cede sovranità e l' area metropolitana ipotizzata come scenario è di là da venire, come poteva verificarsi uno sviluppo della città senza espansione? Poteva, com' è accaduto, aggravarsi l' intasamento e l' abusivismo edilizio nei Comuni della cintura intorno Napoli, aggrovigliando quella corona di spine che Nitti denunciava un secolo fa come prodotto della miseria del Sud. Se si riflette sulle attuali possibilità di edificazione in periferia, si scopre che la parte maggioritaria è prevista come terziario o laboratori produttivi e tale previsione, che forse andava bene dieci anni fa, oggi non corrisponde più alle necessità cittadine. A Milano, per fare un esempio, il Comune si è impegnato a proporre una variante all' Expo 2015 per aumentare la quota di residenze previste e abbassando di conseguenza il terziario previsto. Si tratta in sostanza di proporre aggiustamenti e correttivi, senza stravolgimenti urbanistici, in modo tale da favorire lo sviluppo sostenibile. Un convegno e una mostra a Palazzo Reale ("Mies van der Rohe e il Lafayette park", a cura di Università Federico II, Facoltà di Architettura e Ordine degli architetti, inaugurazione oggi ore 1018) possono essere di stimolo a una riflessione sul come riqualificare la periferie. In particolare la mostra illustra un intervento che ci viene dagli Usa, un grande quartiere nella città dell' automobile, a Detroit, che vuole proporre un modello di eliminazione degli slums. Non è certo una forma d' insediamento immediatamente applicabile alle nostre città del Sud abituate alla strada come luogo di relazioni, ma, superata un po' di retorica sulla città meridionale, non potrebbe essere arricchita la nostra esperienza accogliendo ciò che vi è di veramente innovativo? Si tratta di un grande quartiere edificato intorno a un parco residenziale pedonale con poche attrezzature pubbliche e un adeguato centro commerciale. Vi viene espressa l' idea moderna dell' abitare nel verde che ha attraversato tutto il Novecento e che qui ha trovato una eccezionale soluzione. Case alte per coppie più o meno giovani, case basse per famiglie numerose, case a schiera per la tradizionale famiglia americana. Niente palazzine dunque, ma uno studio del paesaggio e un senso di comunità inaspettato che è testimoniato dal film sulla vita degli abitanti in proiezione alla mostra. Il successo del quartiere si basa sulla qualità dell' urbanistica di Hilberseimer e sulla qualità degli edifici di un architetto d' eccezione, Mies van der Rohe, che ha disegnato le case a basso costo del Lafayette park, dopo che per tutta la vita aveva disegnato case per ricchi borghesi e grattacieli per le Corporates. Purtroppo il parco residenziale moderno ha una cattiva reputazione a Napoli: le Vele di Franz Di Salvo a Scampia altro non erano che un tentativo di case alte nel verde, ma sono state realizzate male e peggio abitate. Con questo non voglio dire che non si possa cercare di farle sopravvivere, in qualche modo, ma certo erano e sono poco adatte a famiglie disagiate con bambini. Il quartiere americano invece appare più in sintonia con gli usi abitativi locali pur aderendo poco all' american way of life delle case unifamiliari isolate col giardino e il garage. Tornando a Napoli e rimarcando il giusto indirizzo del piano regolatore di non espandere la città e di creare luoghi residenziali in periferia attrattivi e soddisfacenti il nostro alto fabbisogno, perché non pensare, nell' attesa di costruire le case dei napoletani fuori provincia, a nuovi quartieri ecologici, ma che usano edilizia mista e grattacieli per giovani coppie e single?

(pubblicato 26 ottobre 2010 — NAPOLI- Repubblica)

Case a prezzi accessibili per le giovani coppie

Forse qualche speranza per giovani coppie, anziani e studenti di trovare un alloggio decente a prezzo sostenibile potrebbe sorgere a breve a Napoli e in Campania.  
In un recentissimo convegno alla Fondazione Banco di Napoli, un gruppo bancario insieme ad associazioni private ha proposto la costituzione di fondi immobiliari da impiegare per costruire alloggi sociali.
Il Piano di edilizia abitativa del governo, nel quale questa iniziativa s’inserisce, sembra poter dare migliori frutti del cosi detto Piano Casa che finora non ha interessato quasi nessuno in Italia. L’ammontare dei finanziamenti pubblici del Piano di edilizia abitativa  è ancora molto esiguo (140 mln di euro),  ma le promesse  politiche di maggiori finanziamenti non mancano ( si parla di un miliardo di euro); essi andranno a coprire il 40% dei costi per gli alloggi mentre il 60% dovrà essere trovato localmente da investitori privati, Fondazioni bancarie,  Amministrazioni pubbliche,  Imprese, Enti di gestione, etc.
Il Social Housing di cui parliamo non riguarda case pubbliche  ma case private  per soggetti economicamente deboli a  prezzi calmierati.
Si parla di prezzi più bassi di circa il 30% rispetto a quelli di mercato, prezzi quindi raggiungibili da ceti medio bassi che oggi non riescono né a comprare né a fittare case dignitose.
Ma oltre i prezzi calmierati l’edilizia sociale differisce dai quartieri pubblici anche per una sua diversa filosofia, simile per certi versi a quella Ina Casa del piano Fanfani del 1949. Intanto si prevede che i progetti siano più attenti non solo alle case ma alle relazioni tra gli abitanti,
ci siano cioè strumenti per una maggiore socialità, poi  sono previste forme semiautonome di gestione degli alloggi e dei spazi sociali, inoltre le  modalità di uso degli alloggi  vengono differenziate in proprietà, riscatto e fitto, ed infine alle funzioni residenziali sono integrate servizi e commercio.

Insomma è un passo avanti ed uno indietro rispetto all’edilizia pubblica tradizionale.
Avanti perché immagina quartieri più vivibili e a gestione privata integrata;  indietro perché le case sono private e dovranno rendere un tasso interessante (si parla di un +3% oltre inflazione) per invogliare investitori privati, cosa non scontata al sud a causa di perturbazioni come illegalità e abusivismo.
In fondo il successo, ovvero la quantità di alloggi sociali da mettere sul mercato,  dipende  da quanto i privati credono in questa iniziativa, considerando  l’enorme fabbisogno esistente ( solo a Napoli è stimato in oltre 50.000 alloggi che non vuol dire però 50.000 acquirenti ). Dipende   dall’ammontare degli  investimenti pubblici  e dalla  collaborazione e capacità degli Enti locali di mettere suoli,  ridurre contributi e superare le croniche difficoltà e ritardi nelle procedure e soprattutto garantire   la sicurezza dei cittadini abitanti.
Senza guardare all’Olanda dove il social housing è molto diffuso, anche da noi, pur in presenza di scarsi finanziamenti pubblici,  iniziative di una certa entità si stanno realizzando a Milano e a Parma.
E’ proprio di alcuni giorni fa la presentazione di un progetto di 110 alloggi della Compagnia delle Opere alla Bicocca con affitti da 500 euro mensili  per  tre stanze e soprattutto  la Fondazione  Housing  Sociale  sta costruendo in due aree periferiche, dopo aver fatto un concorso di architettura con ottimi risultati,  oltre 500 alloggi sociali. A Parma inoltre, la Parma Social House ha in programma, d’intesa col Comune, la realizzazione in due anni di 1100 alloggi sociali.

Il Social Housing dovrebbe affiancarsi quindi ad altri interventi pubblici per essere significativo nella  riqualificazione delle periferie: edilizia pubblica , programmi di recupero, contratti di quartiere etc.
Purtroppo l’esperienza dei Piani di Riqualificazione Urbana, con un meccanismo d’intervento pubblico-privato piuttosto complesso, è stata abbastanza deludente e a Napoli poi, in quindici anni, non si è riusciti a costruire nemmeno una casa scontando anche uno scarso interesse delle Imprese. E’evidente che è molto complesso, costoso e lungo il processo di riqualificazione e le scorciatoie della demolizione e ricostruzione ogni tanto fanno capolino nella stampa nazionale; ma tutto scompare dopo pochi giorni, quando quegli atti criminali compiuti nei casermoni pubblici che hanno esaltato il problema della periferia pubblica degradata sulla stampa, vengono dimenticati.
A Napoli il quartiere De Gasperi a Ponticelli,  600 alloggi degli anni cinquanta,  era previsto da demolire e ricostruire con un bel progetto vincitore di concorso; ma sebbene finanziato,  in cinque  anni il Comune non è stato in grado di effettuare l’intervento. 
Se guardiamo al recente passato napoletano la capacità di realizzare interventi abitativi in grado di ridurre l’emergenza sociale è stata assai scarsa sia da parte dell’Amministrazione Comunale sia da parte delle Imprese private. Dopo l’emergenza dei  20.000 alloggi  pubblici del dopo terremoto del 1980,  assai problematici come socialità e durata delle strutture,  nessun quartiere decente è nato negli ultimi vent’anni,  né pubblico né privato; solo sparse case abusive di cui  i  600 alloggi  di Casalnuovo sono un sintomatico esempio di mostruosità e allarme. Niente di simile è successo a Roma o a Milano, dove sono nati grandi interventi edilizi (si pensi a Parco Leonardo a Roma) che hanno offerto possibilità abitative a prezzi di mercato si intende;  prezzi che  comunque sono inferiori a quelli di Napoli per beni analoghi.
E’ evidente che la periferia da risorsa è diventata ostacolo ed il suo degrado non solo è un problema sociale difficilissimo  ma si allarga e opprime i quartieri intermedi e peggiora anche il centro storico  oltre che privare di futuro i giovani napoletani.
Se l’iniziativa finanziaria del Social Housing meridionale avrà successo e le amministrazioni locali e regionali daranno il loro fattivo contributo, si ridurrà  di un poco il drammatico disagio abitativo e il degrado di periferie inabitabili.  Sappiamo tutti che non è più stagione di edilizia pubblica, ma il fabbisogno abitativo è veramente grande e richiede grandi investimenti pubblici e privati e molta lungimiranza politica per non costringere la maggioranza dei nostri figli a trovare casa altrove.


Pubblicato su “La repubblica” Napoli del 1.10.2010

giovedì 13 gennaio 2011

Accettiamo la sfida sugli anni di Achille Lauro


Mi pare una sfida e una provocazione intellettuale quella di rivalutare il periodo laurino che il Soprintendente Stefano Gizzi ha proposto giorni fa su questo giornale in un’intervista di Diego Lama. 
Una sfida perché per noi che ci siamo formati su “Urbanistica 65” di Iannello e De Lucia, su “Documento su Napoli” di Pane e sugli scritti di De Fusco, appare difficile associare il termine qualità alle realizzazioni laurine mentre associamo a esso concetti come speculazione edilizia o “mani sulla città”e non riteniamo di includere tra le “sue” realizzazioni, pur fatte in quel periodo, opere come per esempio La Loggetta o la Facoltà di Ingegneria. 
Provocazione intellettuale perché, ritenendo di non avere forti pregiudizi, una rivisitazione con occhi meno ideologici e forse più distaccati da quelli degli storici sopra citati, potrebbe essere utile a ricollocare, nel quadro cittadino attuale, un periodo e un insieme di opere che forse merita maggiore attenzione. Accettando la sfida e la provocazione, vorrei solo fare due osservazioni a un argomento e a un’iniziativa che, nel colpevole immobilismo di questi quindici anni, potrebbe agitare positivamente le acque  stagnanti di una paralisi urbanistica che sta danneggiando enormemente il futuro di questa città e soprattutto i suoi giovani abitanti.
Intanto, come osservato da Giovanna Muzzillo su questo giornale ( 8.1.010)  estenderei l’indagine sul  periodo laurino a due decenni, 50-60 e 60-70  che certo sono diversi,  ma riconducibili alla stessa insofferenza delle classi dirigenti di quel periodo per ogni regola urbanistica o semplicemente edilizia; nel 1959 Samonà osservava, Napoli rifiuta i piani,  ed in realtà il rifiuto proveniva da un bisogno padronale di avere mani libere nell’usare la rendita e la fame di case  come leva per superare qualsiasi intralcio democratico. Si praticava l’opposto del principio costitutivo di una tradizionale cultura del fare città: il principio d’ordine. L’istanza di modernizzazione emergente dal paese e il miglioramento economico post bellico venivano piegati a fini particolari anche col malgoverno. Il lassez-faire praticato a Napoli era in linea con quello nazionale, solo un po’ più cinico e baro.  Esso consentiva cementificazioni e aumenti di cubature perfino in zone panoramiche e intoccabili vietate anche dal riutilizzato Regolamento Edilizio del 1935.  ( via Manzoni, via Michelangelo, via Orazio, via Nevio, etc). In periferia, l’indifferenza all’abusivismo, avrebbe prodotto una città illegale come Pianura.
La seconda osservazione riguarda la distinzione tra architettura e città. Il Novecento, a differenza dell’Ottocento, com’è noto, ha praticato disinvoltamente tale separazione che è iniziata a Napoli proprio nel dopoguerra e che ha visto successivi fallimenti urbanistici nella periferia costruita degli anni settanta qualche volta anche in presenza di architetture di qualità.

Negli anni cinquanta la costruzione della città sulle colline avveniva in spregio dei caratteri paesistici, della misura edilizia della città della storia, delle regole moderne di distanza tra strade ed edifici e di dotazione di verde. La modernità laurina produceva brutture come l’intensivo rione Carità col suo “bel” grattacielo o il caotico villaggio Lauro (in nomine fatum); ma anche interventi positivi come la sistemazione di Piazza Municipio affidata a Canino, piazzale Tecchio e la ricostruzione della Mostra d’Oltremare.
Eccellenti architetti che seguivano linee culturali che spaziavano dal classicismo critico di Canino al razionalismo di Cocchia e De Martino all’organicismo di Cosenza e De Luca, producevano, malgrado il laurismo,  opere significative che hanno retto il tempo, come la stazione di piazza Garibaldi, il Politecnico , il Monaldi,  la Rai.  E soprattutto, nel campo delle case popolari la qualità dei nuovi quartieri ebbe riconoscimenti nazionali indiscussi.  Proprio quei quartieri, realizzati massimamente col piano Ina-casa, sono stati documentati da una mostra della Soprintendenza nel 2006 a cura di Ugo Carughi e nella quale Lilia Pagano ed io curammo la sezione cittadina.
In definitiva penso che più che fare graduatorie tra gli anni peggiori della Napoli moderna, sia utile ripensare i modi per una rinascita del senso di appartenenza a un bene collettivo qual è la nostra città con le sue parti storiche cosi come con quelle periferiche entrambe bisognose di amorevoli cure. 
( pubblicato su "Il Corriere del Mezzogiorno" del 12.1.2011)