Per un intervento a basso costo per
abitanti non abbienti serve qualche riflessione propedeutica al progetto se si
vuole un risultato soddisfacente per tutti i quattro attanti: ente pubblico,
fondazioni & promoter, progettisti e soprattutto utenti.
Accantonando per un momento gli aspetti operativi delle scelte
architettoniche come materiali, energia, tipo di costruzione e accordi organizzativo-finanziari insiti nel rapporto pubblico-privato
necessario alla realizzazione, ritengo che siano prioritari due percorsi
metodologici: un’indagine sulla cultura della casa dei futuri abitanti e una
riflessione sugli esempi della tradizione
locale. Ci sono rischi per un percorso del genere, rischi di
provincialismo, rischi di eccessivo realismo , di chiusura e di poca innovazione. Ma, tra i
tanti errori compiuti dagli architetti italiani nella seconda metà del
Novecento, il pericolo di un intervento pubblico troppo conservatore non mi
sembra tra i più pericolosi. Peggio, per le difficoltà procurate, è stato inseguire le sirene delle avanguardie e
praticare l’innovazione solo stilistica proponendo progetti al di fuori e
contro una storia degli abitanti. Sono
stati percorsi progettuali più legati alla soggettività dei progettisti che al
miglioramento dell’abitare. Infatti sono noti i casi di rifiuto e violenza
distruttiva/trasformativa degli abitanti per quegli interventi astrusi detti della
“Grande Dimensione”, che stanno lì a dimostrare il vicolo cieco delle proposte
pubbliche scollegate da qualsiasi riflessione di tipo sociologico. In fondo una casa non è come un museo o un
supermarket, essa vive con gli abitanti, è contemporaneamente esterno e
interno, riparo e specchio di chi la abita e poco partecipa della categoria
dell’innovazione.
L’uso della tradizione locale ritengo
sia un indispensabile approccio per la comprensione della cultura dei futuri abitanti, soprattutto quando manca
la conoscenza degli utilizzatori ed una guida ad un programma condiviso. Molti
dei progetti pubblici del Novecento non hanno indagato dentro la sociologia
abitativa e i desideri delle fasce di utenti cui erano dirette quelle case.
Entrare nella tradizione abitativa significa analizzare il patrimonio
abitativo, conoscerne l’uso e il dis-uso,
il grado di apprezzamento o di rifiuto degli abitanti . E’ uno strumento
utile a indagare il rapporto storico tra abitanti e quartiere, che certamente
non produce soluzioni progettuali- il tempo cambia sia gli uomini che le
case- ma qualche indicazione operativa.
Purtroppo non conosco molte ricerche sociologiche
sull’argomento. Mi ricordo delle
provocazioni di Pasolini negli anni settanta, quando parlava della plebe
napoletana che non accettava la modernità.
Stigmatizzava un cultura
autentica e chiusa che forse oggi
si è molto rarefatta.
Qualche suggerimento però possiamo
prenderlo dalle risposte ad una
intervista che gli abitanti del Rione Terra-Pozzuoli, in procinto di essere
trasferiti nella nuova città di
Monteruscello a causa del bradisismo del 1983, hanno dato (cfr.: A.
Signorelli, La memoria collettiva
popolare, in: Ministero Protezione
Civile,Comune di Pozzuoli, Università di Napoli, Progetto Pozzuoli,1985). Dalle interviste emerge un giudizio
critico sul nuovo quartiere Toiano, dove erano già stati trasferiti dal 1970
altri puteolani a causa di un precedente bradisismo. Nelle risposte si dava
apprezzamento per l’alloggio
moderno, spazioso e confortevole esistente al Toiano, ma si criticava
il quartiere perché : << c’è
troppa dispersione sul territorio, sovradimensionamento e mancanza di
definizione delle sedi stradali e degli spazi aperti, un impianto urbano anonimo e spersonalizzante ,
monotonia, e mancanza di vita nelle strade, impossibilità di creare una
dialettica aperto-chiuso, pubblico-privato, insomma impossibilità di creare
vicinato “vero”, mancanza di un centro, una piazza, una emergenza qualsiasi,
inoltre mancanza di collegamenti interni ed esterni>>. Sono osservazioni critiche motivate che non
mi paiono fuori contesto, portatrici di desideri ed esigenze.
Un aspetto
delle difficoltà di un’analisi della tradizione abitativa napoletana
consiste anche nel separare argomenti
che si sovrappongono intimamente con la
storia della città, piena di miseria e di nobiltà, di case in corti buie
e vasti palazzi con grandi spazi, che
rendono forzatamente duale e senza sfumature l’argomento stesso. Non ci aiuta
fare ricorso al folclore o alla napoletanità come scorciatoia sociologica.Potremmo
avere risposte troppo ambigue, poco adatte a costruirci sopra
una operatività. Meglio , per un
quartiere per ceti poveri, indagare sul rapporto tra abitanti e città che ogni
città instaura con i suoi cittadini e
che cambia nel tempo: un rapporto
storico , culturale e fisico, fatto di cultura,
di case, di monumenti, di strade, di paesaggi e altro ancora. Accanto ai
fulgidi esempi della cultura dei ceti abbienti, dei palazzi nobiliari barocchi, l’abitazione popolare occupava al massimo i piani meno pregiati di quelle
case nobili; ma più spesso i fondaci con
vichi e vicarielli. Erano abitazioni a piano
terra, i bassi del centro storico: case insalubri, promiscue e troppo affollate, con
poca aria, poco sole, senza panorama e senza fogne, dove solo le strade e le
piazzette esterne riuscivano a far respirare aria pulita e sviluppare relazioni
tra gli abitanti di quelle case malsane.
Dove non servivano nemmeno i portici, che, anzi, erano dannosi perché
oscuravano il sole nei già bui e stretti decumani, più di quanto fosse desiderato.
Esempi di quella cultura storica e
duale sono continuati ancora durante il periodo del dopo colera del 1884. Mentre i palazzi borghesi davano un nuovo
volto neo-barocco alla città del Rettifilo, i ceti popolari venivano confinati ad est, nella scacchiera
dell’Arenaccia o al Vasto in edifici con
corti striminzite o tipologie a blocco, tanto sovraffollati quanto densi di abitanti e che Matilde Serao chiamava “caravan serragli”.
Il Novecento è stato portatore di una
nuova cultura dell’abitare, una riforma igienica e razionale che si è andata
affermando sia per merito di una riflessione pubblica sulla casa sociale sia in
conseguenza di una sperimentazione su tipi più adatti e più sostenibili per i ceti
meno abbienti. Si è trattato di una stagione democratica i cui frutti sono
maturati nel secondo novecento.
Di questa nuova cultura novecentesca alcuni
modelli abitativi non si sono realizzati a Napoli. La città giardino per esempio, adattata all'italiana, negli esempi di Roma o a Milano. Era, infatti, quello della città giardino, o meglio,
del sobborgo giardino, un impianto troppo
ampio e troppo costoso, e insostenibile economicamente anche per i suoi
abitanti poveri, poco aiutati dallo Stato giolittiano.
Altri modelli invece hanno prodotto solo
disastri abitativi. Parlo di quelli della “Grande Dimensione”, intorno agli
anni settanta e anche quelli simili della ricostruzione del dopo terremoto del
1980. Si tratta, infatti, di edifici troppo grandi, di bassa qualità
costruttiva nell’uso della prefabbricazione, con enormi difficoltà gestionali
da parte degli Enti senza finanziamenti manutentivi , con abitanti non abbienti e poco
adatti ai grandi condomini, e per giunta con presenza tra gli assegnatari di infiltrazioni
camorristiche non bloccate in sede di assegnazione.
Ci sono invece interessanti esempi
che hanno funzionato egregiamente, modelli di moderna razionalità ingegneresca
come il rione Luzzatti, costruito fuori città nei primi anni del Novecento. Esso esprimeva una sua pacata modernità nella
razionalità distributiva, nella dimensione e nella socialità dell’impianto a corte . Composto
dalla ripetizione di piccoli edifici medi (quattro piani) disposti a corte e accoppiati
a bassi volumi commerciali, sono una positiva variante dell’abitare in corte. Va detto anche che non si tratta di corti
verdi, ma di corti che costituiscono cortina stradale facilitando il rapporto
con le botteghe e lo stare in strada. Lo sceneggiato TV “l’Amica Geniale”ce ne
mostra la vita domestica e relazionale di allora, in un set cinematografico
verosimile.
Lo stesso principio della corte
formata da più edifici bassi è quello proposto da Luigi Cosenza nel quartiere
Olivetti a Pozzuoli, negli anni cinquanta. Con edifici bassi e tipologia in linea, Cosenza
forma delle corti verdi pedonali che vivono di relazioni sociali e sono separate
dalle strade veicolari esterne. Cosenza reinterpreta l’esempio della corte
contadina/bracciantile sette-ottocentesca dei casali napoletani, una
costruzione razionale e semplice, adeguata per modi di vivere tra gente simile. Nel 1939 c'era già stata una diversa interpretazione della corte da parte di A. Cairoli a Pomigliano, nel quartiere AlfaRomeo. Quattro corti accostate, ognuna di grandi dimensioni poste di cortina stradale. Ogni corte un unico edificio con gli orti al centro.
Una variante positiva della corte si trova anche nel
quartiere di via Piave a Soccavo di Mario Fiorentino, disegnato negli anni
sessanta: un sistema di corti verdi non ripetitivo che si raccorda con le
strade pubbliche. Una proposta dove, come al Luzzatti, rientra in campo il
rapporto vitale edificio/strada con uso di semplici tipologie in linea.
Al rione Traiano, Marcello Canino lavorato anche su interessanti esempi abitativi , soprattutto nei lunghi nuclei
residenziali con edifici in linea (quattro piani) disegnati intorno a spazi
urbani centrali caratterizzati da un’attrezzatura pubblica, un mercato oppure una
chiesa.
Un’esperienza riflessiva sulla corte si
trova poi nei tanti esempi di riqualificazione dei casali portati avanti dagli
interventi post terremoto del 1980. E’ quella un’esperienza significativa di una tradizione di cui gli edifici a corte proposti da Capobianco o da Purini, mostrano, meglio di altre tipologie le tante rielaborazioni della corte campana.
Da ultimo un
cenno a Monteruscello, dove nel 1983 Agostino Renna, nella zona bassa, disegna isolati
a corte commerciale e palazzine plurifamiliari
immerse nel verde. Si tratta di
un lavoro tipologico a levare, a ridurre, una messa a nudo della modellistica
dei tipi, usati come anonima edilizia domestica. Renna sperava in un attecchimento dei suoi tipi
edilizi, soprattutto delle stecche razionaliste, ma le difficoltà d’invecchiamento
e di socializzazione del quartiere pubblico, hanno finito per contagiare negativamente
anche gli altri due tipi più consoni a una tradizione napoletana
La cultura
della casa e la tradizione locale sono un percorso d’indagine utile, ma certo non
sufficiente, a dare indicazioni per una riflessione progettuale morfologica che metta al centro gli abitanti . Quello indicato è un percorso
basato su una più relazionata architettura che spinge per un’uscita dalla
dimensione tutta autoriale e soggettivistica appartenente ai progettisti del passato, e che può
creare nuova empatia e partecipazione tra gli abitanti perchè posti al centro del progetto.