martedì 26 marzo 2019

Social Housing: il posto centrale spetta agli abitanti


Per un intervento a basso costo per abitanti non abbienti serve qualche riflessione propedeutica al progetto se si vuole un risultato soddisfacente per tutti i quattro attanti: ente pubblico, fondazioni & promoter, progettisti e soprattutto utenti.    
Accantonando per un momento gli aspetti operativi delle scelte architettoniche come  materiali, energia, tipo di costruzione e accordi organizzativo-finanziari insiti nel rapporto pubblico-privato necessario alla realizzazione, ritengo che siano prioritari due percorsi metodologici: un’indagine sulla cultura della casa dei futuri abitanti e una riflessione sugli esempi della tradizione  locale. Ci sono rischi per un percorso del genere, rischi di provincialismo, rischi di eccessivo realismo , di chiusura e di poca innovazione. Ma, tra i tanti errori compiuti dagli architetti italiani nella seconda metà del Novecento, il pericolo di un intervento pubblico troppo conservatore non mi sembra tra i più pericolosi. Peggio, per le difficoltà procurate,  è stato inseguire le sirene delle avanguardie e praticare l’innovazione solo stilistica proponendo progetti al di fuori e contro una storia degli abitanti.  Sono stati percorsi progettuali più legati alla soggettività dei progettisti che al miglioramento dell’abitare. Infatti sono noti i casi di rifiuto e violenza distruttiva/trasformativa degli abitanti per quegli interventi astrusi detti della “Grande Dimensione”, che stanno lì a dimostrare il vicolo cieco delle proposte pubbliche scollegate da qualsiasi riflessione di tipo sociologico.  In fondo una casa non è come un museo o un supermarket, essa vive con gli abitanti, è contemporaneamente esterno e interno, riparo e specchio di chi la abita e poco partecipa della  categoria dell’innovazione.   
L’uso della tradizione locale ritengo sia  un indispensabile approccio  per la comprensione della cultura  dei futuri abitanti, soprattutto quando manca la conoscenza degli utilizzatori ed una guida ad un programma condiviso. Molti dei progetti pubblici del Novecento non hanno indagato dentro la sociologia abitativa e i desideri delle fasce di utenti cui erano dirette quelle case. Entrare nella tradizione abitativa significa analizzare il patrimonio abitativo, conoscerne l’uso e il dis-uso,  il grado di apprezzamento o di rifiuto degli abitanti . E’ uno strumento utile a indagare il rapporto storico tra abitanti e quartiere, che certamente non produce soluzioni progettuali- il tempo cambia sia gli uomini  che  le case-  ma  qualche indicazione operativa.
Purtroppo non  conosco molte ricerche sociologiche sull’argomento.  Mi ricordo delle provocazioni di Pasolini negli anni settanta, quando parlava della plebe napoletana che non accettava la modernità.  Stigmatizzava un cultura  autentica e chiusa che forse  oggi si è molto rarefatta.
Qualche suggerimento però possiamo prenderlo  dalle risposte ad una intervista che gli abitanti del Rione Terra-Pozzuoli, in procinto di essere trasferiti  nella nuova città di Monteruscello  a causa del  bradisismo del 1983, hanno dato (cfr.: A. Signorelli, La memoria collettiva popolare, in:  Ministero Protezione Civile,Comune di Pozzuoli, Università di Napoli, Progetto Pozzuoli,1985). Dalle interviste emerge un giudizio critico sul nuovo quartiere Toiano, dove erano già stati trasferiti dal 1970 altri puteolani a causa di un precedente bradisismo. Nelle risposte si dava apprezzamento  per   l’alloggio moderno,  spazioso e confortevole  esistente al Toiano, ma  si  criticava  il quartiere perché : << c’è troppa dispersione sul territorio, sovradimensionamento e mancanza di definizione delle sedi stradali e degli spazi aperti, un  impianto urbano anonimo e spersonalizzante , monotonia, e mancanza di vita nelle strade, impossibilità di creare una dialettica aperto-chiuso, pubblico-privato, insomma impossibilità di creare vicinato “vero”, mancanza di un centro, una piazza, una emergenza qualsiasi, inoltre mancanza di collegamenti interni ed esterni>>.  Sono osservazioni critiche motivate che non mi paiono fuori contesto, portatrici di desideri ed esigenze.
Un aspetto delle difficoltà di un’analisi della tradizione abitativa napoletana consiste  anche nel separare argomenti che si sovrappongono intimamente con la  storia della città, piena di miseria e di nobiltà, di case in corti buie e vasti palazzi con grandi spazi,  che rendono forzatamente duale e senza sfumature l’argomento stesso. Non ci aiuta fare ricorso al folclore o alla napoletanità come scorciatoia sociologica.Potremmo avere    risposte  troppo ambigue, poco adatte a costruirci sopra una operatività.  Meglio , per un quartiere per ceti poveri, indagare sul rapporto tra abitanti e città che ogni città instaura con i suoi cittadini  e che cambia nel tempo: un  rapporto storico , culturale e fisico, fatto di cultura,  di case, di monumenti, di strade, di paesaggi e altro ancora. Accanto ai fulgidi esempi della cultura dei ceti abbienti, dei palazzi nobiliari barocchi, l’abitazione popolare occupava al massimo i piani meno pregiati di quelle case nobili;   ma più spesso i fondaci con vichi e vicarielli. Erano  abitazioni a piano terra, i  bassi del centro storico:  case insalubri, promiscue e troppo affollate, con poca aria, poco sole, senza panorama e senza fogne, dove solo le strade e le piazzette esterne riuscivano a far respirare aria pulita e sviluppare relazioni tra gli abitanti di quelle case malsane.  Dove non servivano nemmeno i portici, che, anzi, erano dannosi perché oscuravano il sole nei già bui e stretti decumani, più di quanto fosse desiderato.
Esempi di quella cultura storica e duale sono continuati ancora durante il periodo del dopo colera del 1884. Mentre i palazzi borghesi davano un nuovo volto neo-barocco alla città del Rettifilo, i ceti popolari venivano confinati ad est, nella scacchiera dell’Arenaccia o al Vasto  in edifici con corti striminzite  o tipologie a blocco, tanto  sovraffollati quanto densi di abitanti e che Matilde  Serao chiamava “caravan serragli”.
Il Novecento è stato portatore di una nuova cultura dell’abitare, una riforma igienica e razionale che si è andata affermando sia per merito di una riflessione pubblica sulla casa sociale sia in conseguenza di una sperimentazione su tipi più adatti e più sostenibili per i ceti meno abbienti. Si è trattato di una stagione democratica i cui frutti sono maturati nel secondo novecento.  
Di questa nuova cultura novecentesca alcuni modelli abitativi non si sono realizzati a Napoli. La città giardino per esempio, adattata all'italiana, negli esempi di  Roma o a Milano.  Era, infatti, quello della città giardino, o meglio, del sobborgo giardino,  un impianto troppo ampio e troppo costoso, e insostenibile economicamente anche per i suoi abitanti poveri, poco aiutati dallo Stato  giolittiano.   
Altri modelli invece hanno prodotto solo disastri abitativi. Parlo di quelli della “Grande Dimensione”, intorno agli anni settanta e anche quelli simili della ricostruzione del dopo terremoto del 1980. Si tratta, infatti, di edifici troppo grandi, di bassa qualità costruttiva nell’uso della prefabbricazione, con enormi difficoltà gestionali da parte degli Enti senza finanziamenti manutentivi , con abitanti  non abbienti  e poco  adatti ai grandi condomini, e per giunta con presenza tra gli assegnatari di infiltrazioni camorristiche non bloccate in sede di assegnazione.
Ci sono invece interessanti esempi che hanno funzionato egregiamente, modelli di moderna razionalità ingegneresca come il rione Luzzatti, costruito fuori città nei primi anni del Novecento.  Esso esprimeva una sua pacata modernità nella razionalità distributiva, nella dimensione  e nella socialità dell’impianto a corte . Composto dalla ripetizione di piccoli edifici medi (quattro piani) disposti  a corte e accoppiati a bassi volumi commerciali, sono una positiva variante dell’abitare in corte.  Va detto anche che non si tratta di corti verdi, ma di corti che costituiscono cortina stradale facilitando il rapporto con le botteghe e lo stare in strada. Lo sceneggiato TV “l’Amica Geniale”ce ne mostra la vita domestica e relazionale di allora, in un set cinematografico verosimile.
Lo stesso principio della corte formata da più edifici bassi è quello proposto da Luigi Cosenza nel quartiere Olivetti a Pozzuoli, negli anni cinquanta. Con edifici bassi e tipologia in linea, Cosenza forma delle corti verdi pedonali che vivono di relazioni sociali e sono separate dalle strade veicolari esterne. Cosenza reinterpreta l’esempio della corte contadina/bracciantile sette-ottocentesca dei casali napoletani, una costruzione razionale e semplice, adeguata per modi di vivere tra gente simile. Nel 1939 c'era  già stata  una diversa interpretazione della corte da parte di A. Cairoli a Pomigliano,  nel quartiere AlfaRomeo. Quattro corti accostate, ognuna di grandi dimensioni poste di cortina stradale. Ogni corte un unico edificio con gli orti al centro. 
Una variante positiva della corte si trova anche nel quartiere di via Piave a Soccavo di Mario Fiorentino,  disegnato negli anni sessanta: un sistema di corti verdi non ripetitivo che si raccorda con le strade pubbliche. Una proposta dove, come al Luzzatti, rientra in campo il rapporto vitale edificio/strada con uso di semplici tipologie in linea.
Al rione Traiano, Marcello Canino  lavorato anche su interessanti esempi abitativi , soprattutto nei lunghi nuclei residenziali con edifici in linea (quattro piani) disegnati intorno a spazi urbani centrali caratterizzati da un’attrezzatura pubblica, un mercato oppure una chiesa.  
Un’esperienza riflessiva sulla corte si trova poi nei tanti esempi di riqualificazione dei casali portati avanti dagli interventi post terremoto del 1980. E’ quella un’esperienza significativa  di una tradizione di cui gli edifici a corte  proposti da Capobianco o da  Purini, mostrano, meglio di altre tipologie  le tante rielaborazioni della corte campana.
Da ultimo un cenno a Monteruscello, dove nel 1983 Agostino Renna, nella zona bassa, disegna isolati a corte commerciale e palazzine  plurifamiliari  immerse nel verde. Si tratta di un lavoro tipologico a levare, a ridurre, una messa a nudo della modellistica dei tipi, usati come anonima edilizia domestica.  Renna sperava in un attecchimento dei suoi tipi edilizi, soprattutto delle stecche razionaliste, ma le difficoltà d’invecchiamento e di socializzazione del quartiere pubblico, hanno finito per contagiare negativamente anche gli altri  due tipi più consoni a una tradizione napoletana  
La cultura della casa e la tradizione locale sono un percorso d’indagine utile, ma certo non sufficiente, a dare indicazioni per una riflessione progettuale  morfologica che metta al centro gli abitanti . Quello indicato è un percorso basato su una più relazionata architettura che spinge per un’uscita dalla dimensione tutta autoriale e soggettivistica appartenente ai progettisti del passato, e che può creare nuova empatia e partecipazione  tra gli abitanti perchè posti al centro del progetto.