giovedì 5 dicembre 2019

UN SECOLO DI EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA IN ITALIA

Sergio Stenti     2019, rev. 2022

 

1.Politiche edilizie

Il settore dell’edilizia pubblica, abbandonato nel 1996 prima dallo Stato e poi dalle Regioni ha urgente bisogno di interventi di riqualificazione e costruzione pubblico-privati. Non solo la periferia moderna è una città moderna degenerata e per nulla accogliente, ma i quartieri e gli spazi pubblici soffrono un degrado fisico e sociale che ha necessità di essere trasformato.

Cresce un dovere sociale, una responsabilità politica e un’opera di assistenza, che non si può lasciare solo alla buona volontà dei privati o dei gruppi organizzati. 

Progettare il miglioramento di un bisogno primario, come la casa non è un lusso, è come avere il lavoro o avere cure sanitarie: Amartya Sen, economista e premio Nobel, questi beni li chiama un beni capacitanti, nel senso che sono beni che hanno effetti sull’individuo.  

La nostra Costituzione dice che ogni famiglia deve avere un alloggio adeguato, cosi come la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo prevede tra i diritti umani, il diritto all’abitazione. Nel 1969 i movimenti per la casa innalzavano striscioni del tipo “diritto alla casa”, e la politica rispose allora con nuove leggi un po’ demagogiche e in parte insostenibili e avventate che, con il contributo degli architetti, hanno reso ai molti che hanno avuto una casa, l’abitare difficile e faticoso allogliati come sono stati in troppo grandi quartieri pubblici.

Nell’arco di un secolo i governi italiani, a differenza dei governi di molti paesi europei, hanno costruito poche case pubbliche, solo il 5/6 % del totale che, se anche volessimo sommare questa percentuale a quella delle case cooperative parzialmente finanziate dallo Stato, arriveremmo ad un misero 10/12 %, una quantità comunque lontano dalla media europea che supera il 20%.

 La politica italiana non ha assicurato ai molti un diritto primario la cui penuria, in vari periodo del secolo scorso, è diventata emergenza casa, connotando il nostro paese di negatività sociali non comuni agli altri paesi europei. 

Le richieste agli Enti Casa, ex IACP, da parte di famiglie povere o disagiate, per avere un alloggio pubblico avendo i requisiti per averlo, sono circa 650.000. Ma non c’è nessuna possibilità che i richiedenti, appartenenti al ceto povero o medio basso, abbiano una casa; gli Enti Casa hanno debiti e non certo disponibilità a costruire le case che servirebbero e che le statistiche stimano necessarie per circa un milione di persone. Per la verità la proprietà della casa arriva da noi a percentuali altissime, circa il 70% del patrimonio edilizio, molto di più di quanto mediamente sia la percentuale in Europa. È un dato, questo, frutto della politica del Novecento che dimostra come negli altri paesi europei la disponibilità di case da affittare sia di gran lunga maggiore che da noi, una disponibilità che consente quella mobilità sociale, quella offerta e differenziazione dei prezzi dei fitti che noi oggi cerchiamo con urgenza. Dopo infatti la crisi finanziaria del 2007/08 i prezzi di acquisto delle case sono di poco scesi ma ii fitti sono saliti, rendendo alle tante nuove famiglie disagiate, molto problematico trovare un alloggio decente ed economicamente sostenibile.[1]

La nostra penuria di alloggi è cosa antica. Ancora agli inizi dell’Novecento le inchieste sociali (Milano,1903, Torino) sulla condizione operaia in periferia, dimostravano situazioni abitative preoccupanti per carenza di igiene, sovraffollamento, mancanza di sole e aria e promiscuità, e che minacciavano che l’ordine sociale e la salute della classe borghese che abitava in città; era una massa di persone immigrate che facilmente poteva diffondere malattie, violenza e prostituzione.

L’intervento pubblico per dare case ai lavoratori nasce a cavallo tra Ottocento e Novecento, per merito di filantropi e liberali che durante il governo Giolitti, nel 1903, riescono a far emanare una legge sociale interclassista, la legge Luzzatti.  

Per tutto il Novecento lo Stato, attraverso questa legge, contribuisce in parte a finanziare la costruzione di case da dare in fitto a lavoratori poveri, case per ceti medi da vendere a riscatto, e contribuisce finanziariamente al sostegno delle cooperative edilizie.

Lo Stato Ottocentesco non costruiva case per il popolo così come non si occupava   della sua formazione e della sua salute.  Delle case se ne occupavano associazioni private, filantropi e nobili illuminati, cattolici e liberali, come l’Umanitaria a Milano e la Filantropica a Napoli; espressioni culturali di assistenza e beneficienza che cercavano di smuovere, con poco successo, l’intervento comunale. Solo nell’Italia del Nord, dove l’industria si stava sviluppando maggiormente, come a Torino e Milano, le associazioni private ebbero un ruolo importante nel diffondere l’utilità sociale, industriale e politica di costruire case per i lavoratori poveri. Un po’ come facevano, per loro interesse, le grandi aziende industriali che avevano iniziato a costruire villaggi o case per i propri dipendenti, cosi come costruiranno case per i dipendenti le ferrovie italiane.

Lo Stato novecentesco, nella prima metà del secolo decide con la legge Luzzatti di farsi carico finalmente delle case popolari pur continuando una politica liberale che riteneva giusto incentivare solo il processo di aiuti edilizi che poi doveva camminare da solo sulle proprie gambe. Attraverso banche e altri Enti lo Stato concesse agli ICP terreni di poco valore, ubicati lontano dal centro e contribuì con finanziamenti ad abbassare gli interessi sui mutui che gli Enti contraevano per costruire le case.

I modelli abitativi, sperimentati in questo periodo, si muovono sia ad imitazione della residenza della città borghese sia in alternativa ad essa e oscillano tra casette unifamiliari, palazzine a più piani, modelli di città –giardino, case a schiera ed edifici a blocco tipo Mietkasernem.

La prima guerra mondiale (1915-18) provoca il blocco di tutto il settore edilizio che si riprende in parte solo al tempo del fascismo (1922-45), quando viene attuata una nuova politica che prevede la vendita e non solo il fitto delle case ai ceti borghesi impiegatizi. Il fascismo accentra tutte le decisioni degli ICP nei Ministeri romani, aumenta i finanziamenti all’edilizia pubblica, e privilegia la costruzione di case per gli impiegati pubblici che hanno ora anche uno stile tradizionale in cui riconoscersi, mentre il regime trascura gli interventi per i ceti meno abbienti e gli sfollati delle demolizioni nei centri urbani.  Nel secondo dopoguerra lo Stato cerca di dare una casa a tutti i lavoratori, ma il fabbisogno di case, già di per se grande, era aumentato ancora con le distruzioni della guerra. Nel 1949 fu varato l’unico piano nazionale di costruzione di alloggi pubblici che l’Italia abbia mai praticato: 350.000 case, quasi un milione di vani, realizzate in 14 anni e tutte finanziate dai lavoratori dipendenti, dalle Aziende e dallo Stato. Nacquero così complessi di case che formavano quartieri autonomi, tutti fuori città, da 2000, 5000 e anche10.000 abitanti. Si formò cosi una periferia pubblica che ha orientato e trainato anche la formazione della residenza privata e caratterizzato molta parte della espansione urbana.

L’urbanistica si è occupata poco di piani e di spazio in periferia, il nostro territorio urbano è stato lasciato in balia di poche regole edilizie comunali e all’arbitrio dei privati almeno fino alla legge sui piani di zona del 1962. Nel secondo dopoguerra Intanto, l’InaCasa prima e poi la Gescal, realizzano quartieri popolari a misura umana che funzionano bene anche sul piano sociale. Si espandono in questo periodo anche le case cooperative per gli impiegati, agevolate dalle facilitazioni pubbliche sui suoli espropriati, sui bassi interessi sui mutui e su ridotti oneri edilizi. Il periodo del ’68 disvela in Italia una nuova emergenza casa, in parte dovuta a motivi demografici: si diffondono lotte politiche e sociali in tutto il paese che reclamano nuovi alloggi per tutti da costruirsi in fretta   Si crea così una forte spinta alla costruzione rapida di abitazioni non solo in grandi quartieri ma anche in grandi edifici con risultati spesso negativi sul piano della socialità, dell’abitabilità e della durata dei manufatti. Ma intorno alla metà degli anni ’90 la pressione dei sindacati e le sentenze della Corte Costituzionale si oppongono alla continuazione del prelievo economico (contributi ex Gescal a carico dei lavoratori e delle aziende) per le case pubbliche che lo Stato faceva fin dal 1949. L’opposizione dei sindacati rifletteva il paradosso della impossibilità per gli operai di avere assegnata una casa pubblica perché sopravanzati nelle graduatorie da famiglie più bisognose. Così nel 1996 finisce il prelievo economico per le case pubbliche e finiscono anche le case pubbliche. Le competenze sull’edilizia pubblica passano alle Regioni che in massima parte usano quei soldi residui, chiamati contributi ex Gescal, non per fare nuove case pubbliche, come concordato in sede governativa, ma per altri interessi regionali.

Intorno al cambio del secolo XX, cambiano le condizioni socio economiche del paese, ora la richiesta di case privilegia abitazioni in fitto a prezzi calmierati perchè l’affitto rappresenta un costo più sostenibile per nuclei familiari di ceti medi bassi, è meglio gestibile in rapporto alle entrate di un lavoro poco stabile e spesso precario e perchè la piccola casa in affitto è più adatta ai tanti nuclei familiari di una o due persone.

Sul piano culturale, sociale e ideologico emergono anche altri cambiamenti, maturati nel corso degli anni precedenti: soprattutto si affermano i valori dell’individualismo e insieme della ritirata sociale dello Stato dalle case pubbliche anche a causa dell’alto numero di proprietari di casa esistenti.

Nuove questioni culturali s’incentrano sulle conseguenze di un ampliamento del potere dell’individuo e sulla riduzione del sentimento sociale: più poteri e responsabilità all’individuo, meno poteri e responsabilità allo Stato; un cambiamento che mina il così detto Bene Pubblico. Si assiste, come dice Zagumny Bauman, ad un inizio di liquefazione dello Stato assistenziale e autoritario del Novecento, ad una de-responsabilizzazione e imboscamento del potere; ora il futuro di ogni individuo è soprattutto a carico di se stesso. Infatti da un lato aumenta la percezione dell’insicurezza sociale (minore sicurezza fisica personale e lavoro instabile), dall’altra si allarga l’illusione della libertà individuale senza confini. Si attua cosi uno scambio pernicioso: maggiore libertà individuale con minore sicurezza sociale; uno scambio che riduce e svilisce tutto ciò che è pubblico, compreso lo spazio[2].  

 

Terminata l’edilizia pubblica, inizia l’edilizia privata sociale (Social Housing) che supplisce con poche nuove case a reddito calmierato alla forte domanda di alloggi. Nel 2008 viene creato dal Piano Casa e varato dal governo Berlusconi, un meccanismo finanziario col quale le banche entrano direttamente nelle operazioni immobiliari. Il Social Housing sostenuto da piccole garanzie statali da parte della CDP, si muove e si allarga aggregando Fondi Immobiliari bancari locali che finanziano la costruzione di case per ceti medi impoveriti dalla crisi. I richiedenti sono famiglie e persone che cercano soprattutto case in fitto, perché gli acquisti sono troppo onerosi. Le case che il social housing realizza sono però molto poche in Italia. Numeri, circa 6000 fino al 2020 che non scalfiscono la grande richiesta sociale di abitazioni economiche. Esempi di social housing si trovano per ora soprattutto al nord, laddove Regioni, Comuni, e le banche sono più attive e dove è più alta la richiesta e la disponibilità economica. Interventi di case a buon mercato si trovano a Milano, Torino, Parma e Bolzano, case fatte con alta efficienza energetica, attenzione tecnologica e ambientale e buon design. 

 

2. Società di mutuo soccorso e villaggi operai

Nell’Ottocento non ci sono interventi pubblici sulla casa popolare ma solo interventi privati di tipo assistenziale, cooperativistico o di mutuo soccorso che si realizzano nella seconda metà del secolo, dopo l’Unità d’Italia, a causa del tardo sviluppo industriale del paese. Accanto a questi interventi sporadici si realizzano alcuni villaggi operai fatti da industriali illuminati, realizzati vicino alle fabbriche, e ispirati a modelli inglesi, francesi e belgi.  Oltre ai villaggi operai, che avranno vita lunga almeno quanto le Aziende che li hanno fondati, vanno anche menzionati gli interventi comunitari alternativi alla vita di città, emersi in Francia e in Inghilterra, tutti d’ispirazione socialista e tutti posti fuori città, che hanno influenzato l’architettura della casa economica nella prima parte del Novecento. Le tipologie più diffuse per le case operaie in questo periodo vanno dal villino plurifamiliare in periferia, al blocco urbano pluripiano con piccoli cortili, agli isolati di case a schiera accostate. Diverse invece le sperimentazioni tipologiche della ricerca socialista che miravano a costruire non semplicemente case, ma città-modello per nuove comunità di individui e per nuova società.

Rispetto all’epoca precedente, il rafforzarsi della rivoluzione industriale e lo sviluppo tecnico scientifico guidano ora la società europea[3] (soprattutto le applicazioni del telaio meccanico e l’energia a vapore) e rappresentano i motori culturale, sociale ed economico dello sviluppo di questo periodo. Le condizioni di vita, salute, istruzione e lavoro, e le abitazioni delle classi povere e dei lavoratori inurbati, peggiorano notevolmente rispetto alle abitazioni contadine di provenienza a causa dei disagi aggravati dallo sfruttamento della mano d’opera senza vincoli di legge. In particolare laddove in città crescono rapidamente gli abitanti a spese delle campagne, s’ingrandiscono i borghi esterni, si formano le periferie e gli slums a causa della immigrazione.

Un esempio tipico di questo periodo è la città di Manchester che passa in quarant’anni (dal 1790 circa al 1830) da 25.000 abitanti a 250.000, con un urbanesimo sconvolgente che C. Dickens e F.Engels raccontano in simultanea nei loro scritti.  Sul piano sociale i nuovi Stati nazionali costruiscono sé stessi con un’ideologia unitaria e rappresentano gli edifici delle nuove istituzioni, parlamenti, ospedali, prigioni, cimiteri, etc, con forme eclettiche, spesso classiciste e con dimensioni monumentali. Le città rinnovano il loro centro con sventramenti e risanamenti, con reti di trasporto pubblico su ferro e si rinnovano anche le abitazioni, si costruiscono case d’affitto e case da reddito strettamente utilitarie.

L’urbanistica è quasi assente nel disegno dell’espansione urbana, salvo in importanti interventi borghesi come i boulevard haussmaniani a Parigi, i Regents park a Londra, il quartiere Prati a Roma, via Po a Torino, il Ringstrasse a Vienna.  Ma la periferia si forma come terra di nessuno: nessuna regola, civile, sanitaria, morale, urbanistica viene introdotta; essa è lasciata al puro lassez faire della politica liberale, al mercato della domanda e della offerta. Si forma una fascia mista ai confini della città fatta da un insieme di depositi, fabbriche, case, commercio, strade senza fogne, rifiuti, baraccopoli; una preoccupante congestione urbana che facilita epidemie di tubercolosi e poi di colera, perchè scarseggia l’acqua corrente, mancano le fogne, le attrezzature igieniche, la ventilazione nelle case e la raccolta delle immondizie.

In reazione allo sfruttamento capitalista del lavoro nascono nuovi movimenti sociali di opposizione e di riforma (attivismo religioso, socialismo, Arts and Crafts, etc.), che hanno più successo politico che pratico, come le Associazioni di Filantropi o di Mutuo Soccorso tra operai, che  comunque mitigano, anche se di poco, i disagi della povertà. Si sperimentano anche tentativi di riforma sociale e progetti di modelli di vita alternativa alla legge del profitto da parte di socialisti più o meno utopisti come in Inghilterra e in Francia.

L’architettura prende a prestito tutti gli stili del passato, e li mischia e li usa come vuole: le banche sono neoclassiche, le chiese neoromaniche o gotiche, le case cottage inglesi; ma per le sedi istituzionali del nuovo Stato viene utilizzato un classicismo rivisitato, romantico o strutturale.

Si sviluppa anche un filone progettuale funzionale ed ingegneristico che studia le funzioni e soprattutto le ragioni della costruzione e dei materiali che influenzeranno i pionieri del Movimento Moderno.  Questo filone ingegneristico progetta fabbriche razionali, case igieniche, ponti, strade, ferrovie, e quartieri d’abitazione, togliendo il superfluo e riducendo lo spazio vitale per abbassare i costi.

L’indispensabile realizzazione di case operaie in periferia per i nuovi arrivati oltre ad essere un problema edilizio diventa anche un problema sociale. Ingegneri sanitari studiano soluzioni per case salubri ed economiche, e i progetti vengono diffusi anche attraverso le Esposizioni universali; ma la questione sociale dell’abitazione rimane irrisolta almeno fino agli anni settanta del Novecento.

In Inghilterra si emanano le prime leggi a favore di un’edilizia pubblica per le classi operaie che trova applicazione solo verso il 1893 a Londra, ma le condizioni di vita operaia non cambiano granché.  

Nelle città iniziano a costruirsi edifici d’affitto a blocco, tipo Mietskasernen, o tipi con cortile molto piccolo, con ballatoio e alloggi di due stanze, con tre persone a stanza, senza balconi e senza decori stilisti. A Napoli questi edifici si realizzano a fine ottocento al Vasto, all’Arenaccia, sono costruiti per gli sfollati del centro storico dopo le demolizioni per il colera, ad opera della Società del Risanamento. 

Settori sensibili della società, capitalisti illuminati , nobiltà, riformatori,  banchieri, in risposta alle condizioni deplorevoli e di sfruttamento della nascente classe operaia e dei poveri abbandonati  a sé stessi creano,  nelle città dove si espande l’industria come  Milano e Torino,  Associazioni  Filantropiche, unendo capitale e  lavoro, e  cercando  di realizzare concreti miglioramenti dello stato dei lavoratori e dei poveri, con assistenza sanitaria,  beneficienza, formazione professionale, educazione civile, sostentamento e abitazioni salubri.  

A Napoli, un politico ed ingegnere sanitario, Marino Turchi, fonda, insieme ad altri sostenitori intellettuali come Matteo Schilizzi, la Società Filantropica Napoletana per il miglioramento della classe lavoratrice. Una società che utilizzando donazioni di suoli e finanziamenti privati, realizza nel 1968 su progetto di G. Fiocca  una casa modello con circa 180 alloggi bi-esposizionali, posta in collina, sulla strada per Capodimonte. L’assegnazione alle famiglie di lavoratori era attenta e severa e richiedeva alcune condizioni di base: niente gioco d’azzardo, ubriachezza, molestia pubblica, niente debiti e figli tutti a scuola.

A Milano il caseggiato di via Fermi è uno dei primi esempi di edilizia sociale in città.  Realizzato nel 1862 dalla “Società Edificatrice di Case per operai, Bagni e Lavatoi pubblici” su progetto di F. Sarti, C. Cereda e C. Osnago, si distingue per l’abbandono dei comuni ballatoi esterni e l’uso, al loro posto, di gruppi scale interni per la distribuzione degli alloggi fatta da una scala per due alloggi bi-esposizionali di due vani ciascuno. Sempre a Milano la “Società edificatrice abitazioni operaie” costruisce nel 1882 in via Lincon, due isolati di case cooperative composti da palazzine a due piani con giardino e alloggi duplex; un intervento molto ben recuperato che è diventato oggi una meta per turisti urbani. Molte aziende industriali, come Crespi d’Adda, Schio, Lane Rossi, Leumann, etc. creano  villaggi operai per i propri dipendenti guardando alle esperienze del nord Europa. I villaggi sono pensati come macchine per abitate e per lavorare, dove i movimenti collettivi vengono previsti lungo percorsi predeterminati, tra alcuni luoghi deputati […] e in tempi che lasciano poche possibilità di varianti individuali. In compenso i villaggi offrono un “qualità della vita” certamente superiore rispetto agli standard della classe operaia di fine ottocento: buone abitazioni, servizi igienico-sanitari, educazione, possibilità di svago. Il villaggio Crespi d’Adda, 1878, (circa 1000 abitanti nel 1900) viene costruito attorno a due assi perpendicolari: il primo, parallelo al fiume Adda, attraversa tutto il paese fino al cimitero, il secondo s’incrocia col primo proprio davanti all’ingresso della fabbrica. Le case operaie sono situate entro l’ordine di un reticolo regolare di vie che fanno capo anch’esse alla fabbrica, centro della comunità. Eccentriche all’ordine del villaggio rimangono solo il castello del proprietario e la chiesa.

Il Villaggio Leumann a Collegno, 1875-1972, sembra una piccola città con al centro la fabbrica tessile, un insieme ben attrezzato e dotato di servizi e divertimenti, con villette su due piani con orto giardino e forme architettoniche che ricalcano gli chalet svizzeri. L’ampliamento, disegnato da Pietro Fenoglio, con doppia fila di casette e una piazzetta, è invece tutto in stile liberty.

Il Villaggio Rossi a Schio, (200 alloggi per 1500 abitanti), ha edifici industriali d’ispirazione franco-belga. Le case, cedute a riscatto al prezzo di costo, sono costruite lontano dalla fabbrica nel vicino paese di Schio. La tipologia è a schiera con formazione di cortina stradale, quasi un nuovissimo quartiere senza commercio, snaturato un po’ nel tempo da interventi successivi.

Tra i grandi progetti comunitari prodotti dagli utopisti francesi il familisterio di J. A. Godin ci interessa maggiormente perché esprime un pensiero di riforma sociale alternativo, ma non astratto. Simile al falansterio di Fourier, il familisterio di Godin si basa su una struttura della comunità molto meno ideologica di quella di Fourier.  

Godin aveva provato a fondare una comunità societaria ordinata, posta fuori città e autonoma con fabbrica, case, servizi collettivi e teatro.  Voleva prefigurare una nuova società e una nuova città, eliminando la contrapposizione tra città e campagna, tra lavoro salariato e proprietà dei mezzi di produzione.  Il progetto riproponeva una disposizione d’impianto simile a quella della reggia di Versailles con tre blocchi edilizi di cui quello centrale dedicato a spazi collettivi o pubblici, e quelli laterali, a laboratori.  L’esempio di Godine, forse l’unico esempio alternativo al capitalismo industriale, ebbe il merito, dice Benevolo, di proporre un sistema industriale e sociale (1200 persone) di tipo cooperativo che funzionò davvero per molti anni. Sono questi gli esempi che influenzeranno molte proposte sia della città giardino e sia del movimento moderno, come per esempio l’Unitè d’abitation a Marsiglia.

 

3. Istituti per le Case Popolari e sperimentazioni pubbliche

Nella seconda metà dell’Ottocento, la filantropia, il mutuo soccorso operaio, i villaggi operai delle industrie, insieme alla diffusione della ideologia socialista, creano le condizioni per una trasformazione della politica liberale della casa pubblica. Il tema diviene oggetto di diffuse analisi sociali, inchieste e di svariate proposte tecniche che gli Stati nazionali non possono più ignorare; essi sono spinti da una parte sensibile della opinione pubblica a sostenere interventi pubblici di case economiche nel tentativo di mitigare i disagi abitativi dovuti all’anarchia dello sviluppo industriale e al grande numero di immigrati dalle campagne. La nascita in Inghilterra delle Garden Ciese a cavallo del secolo, e il movimento culturale che le anima, mostrano all’opinione pubblica che esiste ed è praticabile un diverso modo di fare nuove città, alternativo alla congestione industriale capitalistica della città ottocentesca, e che potrebbe anche applicarsi ad ampliare le città esistenti con casette individuali, bassa densità, e molto verde. Questo modello di città alternativa verrà poco o nulla usato in Italia e soprattutto non per i lavoratori, ma solo per ceti medi impiegatizi nella forma della borgata giardino come alla Garbatella e Monte Sacro a Roma, o a Cusano Milanino. Ad inizio novecento la modernizzazione delle città produce anche sconquassi urbani come gli scavi provocati dalle nuove infrastrutture (tram e treni e allargamenti stradali, infrastrutture primarie, etc.) che seguono i disegni dei nuovi tracciati urbani che ampliano le città con grandi estensioni di territori da urbanizzare.  L’urbanizzazione della periferia avviene secondo immediati interessi speculativi con interventi “a macchia d’olio”, con piani   disordinati che non costruiscono nuovi luoghi, ma solo quantità edilizie. In questo disordine, da fervore edilizio, solo l’uso morfologico dell’isolato riesce a garantire una parziale permanenza della forma urbana che si lacera invece completamente nel secondo dopoguerra con l’enorme espansione delle città, quando gli interventi edilizi di periferia prenderanno forme libere e autonome, rompendo l’unità con la storia urbana.

Nel 1903 il governo Giolitti emana la legge Luzzatti che prevede per ogni Comune la costituzione di un Ente per realizzare case popolari per lavoratori, artigiani, commercianti, e sostenere le società cooperative. E’ una legge liberale e interclassista che evidenzia in tutto il paese, la necessità di affrontare il tema delle case per i lavoratori ormai piaga urbana dello sviluppo industriale e della nascita accanto alla città della storia, della periferia, una terra di nessuno. Lo Stato liberale non ritiene di finanziare le opere per le case pubbliche, la sua ideologia lo limita a guidare solo il processo di attuazione. Lo Stato concede esenzioni fiscali, paga in parte gli interessi sui mutui contratti dagli Istituti Case Popolari, e qualche volta concede suoli. A Milano, in concorrenza con la legge Luzzatti, si sperimenta la municipalizzazione delle case popolari orientata da una ideologia socialista che dura solo alcuni anni, interrotta poi dallo Stato per motivi politici ed economici.  Gli ICP nascono come Enti autonomi non economici, detti Enti morali (sociali) che costruiscono case e le gestiscono con i soldi degli affitti e le donazioni della beneficienza privata o pubblica. Sono Enti di assistenza, solo un passo più avanti rispetto alle iniziative della filantropia ottocentesca.  La politica liberale dello Stato, considerava la casa come un capitale e il fitto come l’interesse sul capitale[4] e la legge Luzzatti ne fu adeguata espressione. La legge prevedeva che per accedere ad una casa popolare bisognava avere buona condotta e un reddito da lavoro che doveva assicurare una redditività non esosa dell’investimento immobiliare. I fitti applicati pari a circa il 3/4% del costo dell’intervento erano fitti medio-bassi rispetto a quelli del libero mercato.  Non di rado però anche quei bassi fitti andavano oltre le possibilità economiche degli inquilini che lasciavano molte case sfitte nonostante che i lavoratori poveri potevano usufruire saltuariamente di qualche riduzione sociale che gli Istituti offrivano. C’è da dire quindi che almeno fino alla fine della prima guerra mondiale gli investimenti erano pochi, così come le case costruite, almeno fino alla fine della prima guerra mondiale; che la distanza dei quartieri dal centro città era notevole, aggravata dalla mancanza di servizi pubblici di trasporto, e che tale condizione scoraggiava molti inquilini dal prendere casa.

A fine ottocento, a Milano operavano diverse società filantropiche e assistenziali, come la Società Umanitaria, fondata dal banchiere Mosè Loria nel 1893[5] e ancora oggi operante, che realizza in periferia diversi esempi modello di case popolari, disegnati dall’ing. Broglio, come l’interessante quartiere di via Solari del 1905. Sempre a Milano il Comune costruisce diversi quartieri popolari, tra cui il Mac Mahon, progettato nel 1908 dall’ing. Ferrini, che sperimenta un caleidoscopio di tipologie: edifici a corte, a villini, edifici a corti lunghe, a schiera.

A Roma l’ICP realizza un quartiere destinato alla piccola borghesia, San Saba (Q. Pirani, 1907) composto con un’architettura semplice, varia e ben fatta, un luogo paesano a misura d’uomo.  In questo periodo la scelta tipologica e morfologica degli Istituti è ancora oscillante tra varie tipologie possibili che qualche volta, come al Mac Mahon, vengono proposte tutte insieme per sperimentare modelli da utilizzare per una domanda variegata di lavoratori.

Milano e Torino, centri importanti dello sviluppo industriale e del movimento operaio, esprimevano anche un alto livello di dibattiti e di riflessioni sulle questioni sociali e politiche delle abitazioni e sui modi migliori degli interventi. Sono soprattutto sono gli ingegneri che si occupano delle case popolari, gli architetti (professione nata ufficialmente nel 1923) erano ancora impantanati nel dibattito sugli stili storici e il liberty, e operavano soprattutto nel restauro. Solo a metà anni trenta gli architetti emergeranno come progettisti protagonisti, schierati soprattutto sulla scelta e l’uso di linguaggi figurativi come il classicismo e il razionalismo e assai poco impegnati nell’architettura funzionale.  Dopo la prima guerra mondiale si sviluppa in Italia un ampio dibattito sulle proposte tipologiche per la casa popolare. Si propongono diverse soluzioni modello: casette isolate, edifici a blocco, edifici di altezza media. Le realizzazioni degli Istituti sperimentano soprattutto edifici di altezza media insieme ad edifici tradizionali a cortile e, soprattutto a Roma, edifici con tipologie a villini plurifamiliari per ceti medi.  Ai lavoratori si propongono edifici almeno a quattro piani, a corte o in linea, con alloggi di due vani, mentre ai ceti medi impiegatizi -che una legge del 1926 aveva consentito agli ICP di vendere alloggi a riscatto-, si propongono alloggi più grandi, tre o quattro vani, forniti di servizi.  Gli ingegneri guardavano alla casa popolare come bene economico, come problema “tecnico, igienico, economico, sociale”, e proponevano sperimentazioni un po’ disordinate aderenti però alle maglie dei piani urbanistici di ampliamento. La prima guerra mondiale porta una cesura nella politica edilizia, un blocco edilizio che si scioglie in parte con l’affermazione del fascismo, che inaugura una politica di case pubbliche sostanzialmente diversa da quella precedente giolittiana.  Ora infatti le preferenze vengono date alle case per gli impiegati statali che costituiscono la classe sociale maggiormente beneficiata dal regime.  

Sperimentazioni vengono fatte soprattutto a Milano, Roma e Torino. A cavallo della prima guerra mondiale si realizza a Cusano Milanino l’unico esempio di città giardino in Italia, progettato dall’ing. Ferini e costruito dalla Unione Cooperativa.

Ancora a Roma, subito dopo la grande guerra, lo ICP realizza   due interventi di città giardino nella forma di borgate giardino: Garbatella e Aniene, destinate ai ceti impiegatizi.  La Garbatella (1921, prog. G. Giovannoni) soprattutto, mostra un riuscito modo di fare espansione, anche se poco adatto ad una grande città: una borgata giardino a dimensione di cittadina con bassa densità, un centro urbano tradizionale e tanti villini diversi sparsi nel verde e pieni di decori “barocchetti”. 

A Torino lo ICP realizza un isolato intero con case a greca, il quartiere Vittorio Veneto (U. Cuzzi, 1928): una proposta già pienamente moderna che usa una concatenazione di edifici continui disposti a greca, ben serviti da attrezzature interne.

Oltre agli ICP, lo Stato crea nel 1924 nuovi Enti pubblici come l’INCIS per ceti medi impiegatizi, e finanzia anche società cooperative di impiegati che, soprattutto a Roma, si espandono in quantità elevate col concorso degli enti pubblici . Negli anni trenta del novecento si affermano i primi tentativi, molto dibattuti fra tradizionalisti e modernisti, di quartieri razionalisti. Sono sperimentate novità stilistiche e di impianto che nascono tra gli architetti in occasione dei numerosi concorsi nazionali banditi, e le cui novità che si trovano anche in alcuni interventi dimostrativi del regime.  

A Milano l’ICPM realizza il quartiere Fabio Fili (Albini, Palanti, Camus 1935), a Bologna, si costruisce il Villaggio della rivoluzione fascista (F.Santini, 1936), a Pomigliano d’Arco l’Iri costruisce la fabbrica e il quartiere AlfaRomeo (A. Cairoli, 1938).  

Sul piano politico il fascismo commissaria i grandi Comuni, accentra la gestione degli Istituti nei Ministeri romani, aumenta i finanziamenti solo per case riservate al pubblico impiego statale e al contempo riduce/elimina i servizi collettivi nei quartieri. Il regime decide importanti interventi di sventramento   nei centri città, come a Milano, Torino e Bologna, e gli Istituti si fanno carico con difficoltà di sistemare gli sfollati in alberghi, borgate, e case minime costruite ex novo.

In città il regime, attento alla sua immagine, realizza, in occasione dei sopralzi nei quartieri, operazioni estetiche di restyling eclettico di parti degli edifici popolari esistenti, con uso di linguaggi neo-classici o neo-barocchi nei nuovi interventi, e di pacata modernità in interventi di quartieri popolari dimostrativi della volontà di stare al passo con l’Europa. I luoghi di dibattito sono concentrati a Milano e Roma dove un certo funzionalismo milanese fa da contraltare ad un vernacolo provinciale romano/laziale su base classicista. La diffusione della nuova tecnica costruttiva del cemento armato, la nudità del razionalismo insieme alla italianizzazione di modelli europei, spingono lo sviluppo dell’architettura delle case popolari verso una più sentita modernità che avrà sviluppo nel secondo novecento.   

 

4. Leggi sulla casa e periferia pubblica   

La stagione moderna delle case popolari dura quasi mezzo secolo: dalla Ricostruzione dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale alla grande dimensione negli anni settanta/ottanta, dopo la quale si assiste ad un cambiamento di impostazione edilizia ed urbana. Si tratta di un periodo di grande trasformazione della nazione che tocca tutti gli ambiti sociali e nel quale si forma la periferia pubblica. L’intervento pubblico ha fatto grandi sforzi per dare una casa a tutti, ma non altrettanti per costruire la città intorno che è stata invece gestita male e in modo anti-urbanistico dalle forze economiche e politiche e dai Comuni.

Molti parlano di fallimento dell’intervento pubblico o addirittura di fallimento dell’architettura moderna che è stata la forma che ha assunto l’intervento pubblico residenziale, sposando i concetti di progresso, democrazia e architettura moderna. Purtroppo questo stereotipo inevitabilmente svaluta la realtà fattuale della storia italiana e i suoi meriti e rafforza il mito della colpevolezza per le mancate sorti magnifiche dell’architettura moderna in Italia.  Il disinteresse pubblico per la casa sociale, la concorrenza politica tra case popolari e case cooperative, il lassismo urbanistico comunale a favore delle aree private, sono state le opposte pratiche che hanno segnato negativamente il carattere della nostra periferia. Le proposte degli architetti non sono riuscite poi a dare un forte contributo al consolidamento culturale e pratico di una via italiana alla città moderna, che è stata segnata invece da un individualismo poco temperato.  Soprattutto c’è stata una certa instabilità e una eccessiva sperimentazione delle proposte architettoniche e urbanistiche, mai stabilizzatesi del tutto sulle acquisizioni positive precedenti, e mai storicizzate, la cui maggiore pecca risiede nella scelta ideologica di fare case autonome senza relazione col contesto.

Il cambiamento culturale dopo gli anni settanta/ottanta ha influenzato le relazioni tra le persone. Si è infatti molto indebolito il senso di comunità e la condizione formativa del lavoro, è aumentata la povertà e l’indigenza e le contraddizioni sociali dovute anche agli immigrati.

Molte stagioni hanno caratterizzato la nostra periferia pubblica, la sua formazione non è stata un processo naturale né un artificio lineare: essa è lo specchio della nostra modernità e della modernità degli architetti. Le sue stagioni hanno avuto per lo meno tre periodi storici diversi, non solo sul piano delle proposte urbanistiche e architettoniche, ma soprattutto sulle politiche e le leggi che l’hanno regolata e formata. Per semplicità possiamo suddividere la periferia in tre fasi. Una prima periferia che va grossomodo dal 1900 al 1944, si presenta caratterizzata per lo più da un’aderenza morfologica alla forma della città esistente di cui essa vuole essere un ampliamento. L’architettura vive diverse declinazioni: un periodo di ricerca sulla casa migliore per i lavoratori con proposte di edilizia povera e salubre e con sperimentazioni morfologiche di villaggi giardino, a cavallo della grande guerra, e un periodo eclettico durante il fascismo che, negli ultimi anni del regime, si trasforma in parziale adesione al linguaggio razionalista.

Una seconda periferia, databile dal 1949 al 1971, è caratterizzata da una minore aderenza morfologica alla città esistente, da una maggiore autonomia formale, con interventi urbanisticamente autonomi che avevano dentro l’aspirazione a creare parti nuove fuori città, senza relazione ai contesti e simili a isole di futuro nel mare urbano. L’architettura attraversa una prima fase di forte ma breve razionalismo, almeno fino al 1950, quando cominciano i quartieri organici Ina-casa. Dal 1962 inizia un periodo comunale di espansione delle città che, attraverso i nuovi piani 167 che beneficiavano dell’esproprio pubblico dei suoli, prevede ampie zone di edilizia pubblica e cooperativa che ridurranno di molto il fabbisogno accumulato di case. 

La terza periferia si forma con l’applicazione della nuova legge sulla casa (865/1971), in un periodo che va dal 1971 al 1985 circa, quando il sistema paese prende coscienza della crisi degli alloggi dovuta anche a motivi generazionali. Le proposte architettoniche-urbanistiche di questo periodo si staccano decisamente dalla forma della città esistente e attraverso invenzioni di habitat autonomi e di espansioni metropolitane, disegnano un paesaggio che è altro dalla città tradizionale e che si confronta direttamente col territorio. La storica penuria di alloggi pubblici si trasforma ora in emergenza e crisi acquistando un forte peso politico nazionale che spinge gli interventi pubblici ad aumentare notevolmente, peggiorandoli, gli interventi, con forte aumento della dimensione e utilizzo di tecniche costruttive più veloci.  

Anche la politica edilizia ha attraversato diverse stagioni.  Nel Novecento vengono emanati, tra leggi e decreti, circa 37 provvedimenti importanti, che influenzano e cambiano il processo edilizio, compresa la progettazione, la realizzazione e l’assegnazione degli alloggi pubblici. Le disposizioni e i regolamenti sulle case popolari incidono anche sui progetti, in una maniera che credo più stringente di quanto possa incidere lo stile degli architetti progettisti che, salvo casi di progetti eclatanti e fuori regola, hanno in fondo modificato di poco i contenuti della casa pubblica.

La prima stagione edilizia prevede la costruzione di case sociali sia da parte del nuovo Ente, ICP, posto alle dipendenze del Comune, sia da parte dei privati soci di cooperative: le case pubbliche non sono destinate ad una fascia sociale precisa, ma a tutti i ceti meno abbienti, senza differenza.  La legge prevedeva solo un piccolo contributo a carico dello Stato, dell’ordine del 3-4% che serviva ad abbassare il tasso d’interesse dei mutui privati contratti per l’edificazione; il resto era a carico della gestione economica dell’Ente che stabiliva gli affitti considerando una rendita massima del capitale privato investito del 4%.  Le regole per l’assegnazione delle case agli inquilini erano abbastanza severe e prevedevano tra l’altro il possesso di un certo reddito per garantire il pagamento del fitto e un comportamento morale di buona condotta per tutti i familiari.  Nel periodo fascista la legge Luzzatti viene modificata in senso centralista e lo ICP, sciolto dalla dipendenza comunale, viene posto sotto il Ministero LL.PP che ora inizia a finanziare direttamente gli interventi privilegiando i lavoratori di categorie pubbliche come polizia, ferrovieri, esercito, magistrati etc.  Da case per tutto il popolo, com’era l’ideale di Luzzatti, si passa, durante il fascismo, a favorire le case dei ceti medi statali, la cui ubicazione urbana non è più in aree periferiche, ma, ove possibile, in aree centrali liberate per demolizione o risanamento.

La seconda stagione edilizia inizia nel secondo dopoguerra quando, nonostante ci fossero già diversi Enti pubblici che costruivano case popolari come Incis, Iacp, Unrra-Casa, Genio Civile, Società per il Risanamento, Inail, viene creato nel 1949 dal governo De Gasperi, un nuovo ente, l’InaCasa, presso il Ministero del Lavoro e Previdenza sociale, per gestire la ricostruzione postbellica. Attraverso le leggi Fanfani, Tupini e Aldisio il finanziamento viene posto a carico dei lavoratori, delle aziende e poco a carico dello Stato con l’indicazione per l’ina Casa di acquistare i suoli sul libero mercato. Nel 1950 viene creata la Cassa per il Mezzogiorno che si occupa anch’essa di case pubbliche nel meridione.

Lo straordinario piano InarCassa che riuscirà a costruire circa 350.000 alloggi di qualità in 14 anni era improntato ad una ideologia anti-industriale e anti-urbana, all’uso di ampia artigianalità nel piccolo cantiere che non cerca di proporre una immagine pubblicitaria dello Stato, anzi usa con libertà il nascente professionismo italiano. Nei quartieri Ina si esprimevano indubbi meriti architettonici e insieme a carenze urbanistiche, con molta attenzione allo spazio interno all’alloggio e alle relazioni sociali interne al quartiere.  

I governi democristiani praticano una politica di spezzettamento lobbistico del settore edilizio pubblico che inevitabilmente limita di molto la forza tecnica, politica, e gestionale degli interventi i quali, decisi autonomamente dagli Enti stessi, creano confusione urbanistica nei comuni dove intervenivano.  La mancanza di pianificazione comunale degli interventi pubblici si salda purtroppo con la mancanza di accordi tra gli Enti pubblici costruttori e i programmi comunali. Si verifica cioè che la previsione di interventi comunali come viabilità, infrastrutture e attrezzature, spesso non combacia con i vari interventi residenziali pubblici, vanificando non solo una mancata economia sul valore dei suoli, a tutto vantaggio dei privati, ma soprattutto realizzando quel disordine e quella inefficienza urbana di relazione che caratterizza ancora la nostra periferia.  Sostiene Benevolo giustamente che ci fu un’indifferenza notevole nei confronti delle trasformazioni urbanistiche negli anni cinquanta e sessanta: troppo spazio, privo di regole e controlli, fu concesso all’edilizia privata. Nella ricostruzione mancava una forte visione d’insieme, come invece esisteva nel Regno Unito, e che da noi indeboliva i risultati. Comunque la politica centrista consentì alle più disparate categorie di cittadini un accesso all’alloggio; ci fu un forte sostegno centrista dato alle case cooperative contro il sostegno della sinistra alle case degli operai, insieme ad un connubio lobbistico tra interessi edilizio-fondiari e atti amministrativi conseguenti, che spinsero in alto la valorizzazione dei patrimoni immobiliari.  Sul piano strettamente architettonico la ricostruzione rappresentò l’ultima occasione di costruire una tradizione architettonica italiana su cui lavorare, cui avevano partecipato Ridolfo e Quaroni, e che fu abbandonata dopo la fine della Gescal.  

 

L’ina Casa ha prodotto molti quartieri di buon livello tra cui alcuni notevoli che si distinguono per una maggiore qualità sociale e architettonica. Il quartiere Bernab Brea a Genova di L. Daneri, costruito dentro un parco con rispettosa attenzione della natura, con un adeguato impianto morfologico secondo le curve di livello e una architettura modulare semplice e moderna. Il quartiere Falchera a Torino di G, Astengo, un progetto di spazi verdi sociali concatenati, una architettura severa dotata di attrezzature complete che esaltano lo spazio centrale. Il quartiere Harar-Dessiè, un incastro tra razionalismo e organicismo dove dominano lunghi e alti edifici, sperimentali e formali, di assoluta qualità.  Il quartiere Olivetti a Pozzuoli di L. Cosenza, dove una squadra composta da architetti, paesaggisti, designers e un imprenditore illuminato realizzano un quartiere organico legato alla tradizione contadina. Il quartiere Forte Quezzi, importante per la capacità di controllo di una mega-architettura, il ri-disegno con lunghi e alti edifici del paesaggio genovese, il cui progetto guarda a Le Corbusier. Il quartiere Decima a Roma, per l’abilità del progettista L. Moretti di fare contemporaneamente un impianto originale basato su collaudate architetture borghesi. L’intervento alla Giudecca, una architettura unica nel panorama veneziano moderno, un progetto non mimetico e non vernacolare, quasi un villaggio operaio su un’isola /fabbrica.

 

Nel 1962 e nel 1971 Il Centro Sinistra introduce due importanti novità legislative che cambiano il quadro di riferimento sul piano urbanistico e su quello sociale: la legge sui piani di zona per l’edilizia pubblica con l’esproprio delle relative aree da parte dei Comuni (legge 167/1962), e la legge sulla casa n. 865/1971, le cui conseguenze caratterizzano la terza stagione edilizia. Dopo un periodo di grandi proteste politiche e di agitazioni sociali nel paese che includevano slogan sulla casa come “la casa è un diritto”, il governo di centro-sinistra Andreotti-De Martino emana un’importante riforma della casa. Essa prevede tra l’altro l’uso con diritto di superficie delle tante aree espropriate dai Comuni con la legge 167/1962 per alloggi pubblici.  Ogni comune decide la sua politica urbanistica, le aree dove realizzare lo sviluppo e la quantità di case che i finanziamenti statali gli consentono.  Vengono smantellati tutti gli Enti edilizi esistenti salvo lo Iacp, viene costituito un gruppo di esperti ministeriali riuniti nel C.E.R. per gestire i fondi pubblici. Tutto il settore delle case pubbliche, a cominciare dalla progettazione, passa ora al vaglio dei Comuni per l’approvazione e al parere delle due commissioni IACP provinciali.  Il finanziamento delle case pubbliche viene mantenuto a carico dei lavoratori, delle aziende e poco allo Stato. La Gescal subentra all’ina Casa, di cui viene smantellata la struttura di gestione, sostituita con un sistema politico- burocratico ministeriale che, nei quasi dieci anni di funzionamento, riuscirà colpevolmente ad investire assai poco delle notevoli risorse disponibili. I finanziamenti sono suddivisi in interventi pubblici e agevolazioni alle cooperative che d’ora in poi rappresentano una voce di finanziamento quasi uguale agli investimenti in edilizia residenziale pubblica. Infatti l’entrata in campo dei ceti medi, organizzati in cooperative di mestieri e professioni, iniziato negli anni cinquanta con la legge Tupini, si attua ora in maniera notevole a causa del cresciuto benessere economico: si realizzano infatti nei piani di zona 167 quartieri di ceti medi che mantengono una loro autonomia formale e anche fisica rispetto ai vicini quartieri popolari con i quali non vogliono essere confusi.  

La legge sulla casa, emanata dal governo DC-PSI cambia completamente gli inquilini delle case di edilizia popolare e inoltre facilita la realizzazione delle case cooperative con agevolazioni sull’uso dei suoli espropriati, sulla accensione dei mutui e sugli interessi. La nuova legge prevede di assegnare le case pubbliche non più ai lavoratori dipendenti con basso reddito, come in passato, ma genericamente a famiglie di bisognosi, con poco o nessun reddito che vengono favorite nei punteggi per le assegnazioni.  Si tratta di una modifica importante, di una impostazione socio-economica nella valutazione delle assegnazioni; la casa pubblica diventa concettualmente parte di una assistenza sociale che avrebbe dovuto avere sovvenzioni dalla fiscalità generale, come la sanità o la giustizia, e non dai contributi Gescal che, eliminati nel 1996, faranno crollare l’edilizia pubblica quasi zero. 

L’elenco degli insuccessi della grande dimensione è noto: lo Zen, circa 15.000 persone in 3200 alloggi, il Laurentino con circa 25.000 abitanti, il Coriale, 6500 abitanti in 1450 alloggi; le Vele, 6000 abitanti in 1180 alloggi, il Rozzol Melara 1685 abitanti in 650 alloggi.   

Le conseguenze per il grande numero di persone che abita in questi mastodonti sono assai negative su molti piani: scarsa sicurezza individuale per mancanza di controllo degli spazi interni, difficile convivenza condominiale per poca comunanza, e inospitalità di un manufatto che presto è diventato degradato per mancanza di manutenzione dovuta a penuria di fondi anche a causa di un’alta morosità nei fitti.

Gli Iacp, e il CER, non recepiscono o non sono in grado di provvedere all’urgente necessità, conseguenza della legge casa, di far fronte a nuove tematiche sociali di assistenza ad inquilini numerosi, disparati e disagiati, non abituati a vivere in condominio.

Nonostante il sostanziale assistenzialismo della legge 865/1971 nel decennio 70’-80’ avvengono imponenti occupazioni di alloggi pubblici che aprono la lunga stagione politica dell’illegalità tollerata, del condono edilizio per “abuso di necessità”[6], delle soluzioni rappezzate, e degli strappi alla legalità. Il bisogno di case era sentito come un’emergenza nazionale: “La casa è un diritto” era scritto sui cartelli nelle manifestazioni di piazza in tutta Italia. Il 1971 segna quindi uno spartiacque nella periferia pubblica. I quartieri prima di allora erano ancora pezzi aggregati alla città, quartieri all’italiana come li chiamava Giò Ponti: una dimensione contenuta con abitanti che condividevano un minimo di futuro insieme, legato al valore chiave del lavoro.  I nuovi habitat, cambiate le regole e ingigantiti gli interventi per supplire velocemente alla richiesta di tipo politico-sociale, producono un eclatante peggioramento della vivibilità nei quartieri. Sarebbero servite strutture pubbliche di sostegno, adeguate alla dimensione delle iniziative, ma non furono previste e si preferì invece emanare provvedimenti demagogici che consentivano di dare le case pubbliche a persone senza reddito e spesso anche ad emarginati, con colpevole tolleranza verso gli occupanti abusivi (ancora nel novembre 2019, la Regione Campania ha deciso le regole per nuove legalizzazioni delle occupazioni abusive). Si concentrano in questa terza stagione, durata solo 15 anni, una tale mole di errori gestionali, progettuali e sociali, che hanno fatto diventare questi quartieri il simbolo del malessere, del degrado, della insicurezza sociale e della incapacità risolutiva dello Stato.  

Negli anni ’70 la cultura politica propugnava sogni di sviluppo come espansioni urbane senza confini, miti come la città/regione o città delle infrastrutture, e non s’interrogava con quali strutture economiche si sarebbe potuta sostenere tale espansione. La cultura architettonica s’inserì in questa prospettiva, tralasciando l’iniziale interesse, espresso nell’immediato dopoguerra, alla parte tecnico costruttiva degli edifici per sostituirla con l’interesse per le più appaganti forme architettoniche. Si inventarono ragionamenti su nuovi habitat nel territorio, più grandi e costruiti più velocemente con la tecnica del prefabbricato pesante.

In sostanza questa stagione mancò di pragmatismo e ignorò purtroppo la realtà popolare e sociale di chi ci andava ad abitare. Tra i tanti errori imputabili alla cultura urbanistico-architettonica italiana, il più grande, oltre alla mancanza di conoscenza sociale degli usi e costumi popolari degli abitanti, è stato quello di non riuscire a fondare una tradizione moderna dell’abitare, dopo quella fatta dalla ricostruzione post-bellica, riflettendo ed imparando dal passato prossimo in modo da prevedere e guidare i progetti successivi. 

Tutto correva velocemente allora, pochi si fermavano a riflettere sul già fatto e la “fragile avanguardia” degli architetti italiani inseguiva una modernità che stava fuori dalla storia.

Allora correva velocemente anche la spesa pubblica e l’economia era sospinta ancora dal boom economico degli anni sessanta. L’indebitamento del paese raddoppiò dal 1968 (35% del Pil) al 1980 (70% del Pil); il capitalismo di Stato godeva di ottima salute ed era evidente che così grandi interventi pubblici nei più disparati campi non erano sostenibili a lungo. La legge sulla casa assegnava a Comuni e agli IACP la valutazione dei progetti con il parere di due commissioni di valutazione, comunale e IACP, che avevano poca esperienza di grandi progetti residenziali pubblici, da realizzare in poco tempo e avendo poca dimestichezza con questioni di gestione legate ai grandi numeri.  Gli Iacp, fino ad allora erano stati solo enti esecutori, non avevano ereditato quasi nulla della grande esperienza maturata dalla gestione Ina-Casa. Sarebbe occorsa, per un così impegnativo programma, una struttura nazionale e locale di supporto alle realizzazioni, una struttura politico-tecnica come l’esperienza delle new towns inglesi chiaramente indicava, ma l’approssimazione e in fondo il disinteresse di lungo periodo della politica, non lo ritenne necessario. Il ricorso alla grande dimensione degli interventi fu un passo che accentuò la fuga in avanti e l’illusione degli architetti che la forma e il linguaggio del progetto potesse risolvere il contenuto della grande dimensione. Pochi si preoccuparono non di guardare ma di studiare le grandi esperienze fuori d’Italia, si sottovalutarono gli scompensi dovuti ad una cultura francamente limitata e poco critica: tanto orgogliosa e autocentrata da essere informata di tutto, ma da imparare da nessuno, trascurando le migliori esperienze europee.  Mancò l’interesse a continuare il lavoro su ipotesi di figurazione di un abitare italiano legato ai luoghi e alla tradizione, e fu più facile inventare a tavolino nuove proposte, pensare a segni vistosi emergenti nel territorio, che inevitabilmente difettavano di pragmatismo e di conoscenza degli abitanti. Già nel 1959 ci fu una anticipazione di ciò che sarebbe accaduto con la legge sulla casa del 1971.  Il tentativo dei quartieri coordinati CEP (1954) di risolvere il distacco dalla città, la frammentazione urbanistica e la mancanza di attrezzature, era un obiettivo irraggiungibile senza la collaborazione fra Comuni, Provincie e Stato. Forse allora le aree furono scelte con maggiore validità urbanistica in raccordo spesso con la politica dei comuni, ma le attrezzature pubbliche assegnate agli Enti e le infrastrutture assegnate ai Comuni, furono, nella migliore delle ipotesi, non all’altezza degli obiettivi urbanistici posti: attrezzature carenti e sfasate nel tempo rispetto alle case. Anche l’aumento della dimensione dei quartieri trovava un ambiente tecnico-politico impreparato; c’era una generale carenza di regia tra Enti e Comuni.  Quei quartieri coordinati erano già altro dalla città italiana; si voleva superare la separatezza urbanistica dei quartieri Ina-casa, la loro mono-funzionalità, ma il coordinamento tra i diversi Enti impegnati era troppo debole, mancava la sinergia tra Stato, Enti e Comuni e una programmazione di collegamenti pubblici tra i nuovi interventi e il centro città. I quartieri Cep erano interventi per sfollati, per senza casa, per coloro cioè che non potevano accedere alle case dell’Ina, perché non avevano un lavoro dipendente; quella fu una anticipazione negativa delle conseguenze di un mix sociale zeppo di contraddizioni, di quartieri dove era ed è difficilissima la convivenza e la gestione, che esplose dopo la legge sulla casa del 1971.

Nessuno pensò per esempio di prolungare e rinforzare l’esperienza del secondo settennio Ina-Casa, che fu invece inspiegabilmente liquidata per creare la Gescal.  Già all’inizio del secondo settennio, negli scritti di riflessione sul bilancio dell’attività dell’Ina-Casa  si ragionava sui quartieri realizzati di 1500/2000 abitanti e su quelli di 10.000.  Queste soglie erano in ragione dei gradi di autosufficienza raggiungibili e del cambio di dotazione di servizi e attrezzature urbane che sarebbero state necessarie oltre i 10.000 abitanti. Le attrezzature necessarie ai quartieri infatti, salvo le chiese, non erano di competenza dell’Ina-Casa, ma dei Comuni e queste componenti della vita sociale quasi mai furono fatte secondo le previsioni. Innovativa era stata la  scelta Ina Casa di realizzare Centri Sociali nei nuovi quartieri (Falcherà, Isolotto, Harar, etc) con  sociologi, psicologi e semplici impiegati, che lavoravano  per radicare e stimolare le relazioni tra gli abitanti nell’ottica di una migliore saldatura tra centro e periferia: un’attività sociale di servizio sul posto, un’esperienza preziosa che, con l’aumentare della dimensione dei quartieri, sarebbe stata quanto mai utile  prolungare nei nuovi insediamenti e che inoltre avrebbe potuto costituire una formidabile esperienza da utilizzare successivamente anche per la riqualificazione.  Nota giustamente B. Secchi che: “vittima ancora una volta delle illusioni costruite dalla ‘teoria quantitativa della produzione edilizia ‘, il progetto della città perde l’occasione dei Cep e poi dei quartieri 167”. Nessuno approfondì le conseguenze sociali e di gestione dei quartieri composti da concentrazioni di cittadini poveri, come accadde poi nella grande dimensione. Il collante che teneva insieme le comunità che si erano formate nel lavoro in fabbrica, si stava sciogliendo. Fu un errore esiziale, fatto soprattutto per disinteresse e incapacità statale, che rispondeva solo all’immediato presente della politica: avere voti per rimanere al potere. Dopo alcuni anni le conseguenze si fecero sentire: fitti non pagati, impossibilità di fare manutenzione da parte dello IACP per mancanza di fondi, gestione sempre più difficile per occupazioni e infiltrazioni di delinquenza, inizio di profondo degrado dei manufatti.

 

I dati sulla proprietà edilizia mostravano che la casa, intorno al 1980, era posseduta da circa il 60-70% della popolazione, e la politica ritenne che il bene primario dell’alloggio non fosse più una questione sociale, ma una questione solo di alcune minoranze sparse nel paese[7] e cosi, finita la riscossione delle quote Gescal, finisce l’intervento pubblico che solo con la crisi finanziaria del 2008 viene rimesso in campo.  A Librino, un quartiere di Catania del periodo della grande dimensione, dove hanno lavorato nel 2016 gli architetti del gruppo 124 di R. Piano, le risposte/richieste degli abitanti ad una inchiesta condotta da Mario Cucinella, non sono state intorno a miglioramenti architettonici o estetici, ma hanno riguardato richieste di luoghi per incontrarsi e fare sport (i giovani), di spazi verdi non recintati per far giocare i bambini (le mamme), d’illuminazione e orti (gli anziani).  Sono state richieste leggere, semplici e completamente fattibili nel breve tempo che, infatti, hanno anche iniziato a realizzarsi.

 

5. L’edilizia privata sociale (Social Housing) 

Nel 1996, quando i contributi ex Gescal cessano, finisce la stagione delle case popolari italiane. Passate le competenze alle Regioni, gli abbondanti residui economici ex Gescal in cassa alla CDP, vengono investiti in costruzione o recupero di case popolari, come previsto dagli accordi Stato-Regioni, solo da poche regioni, mentre la maggior parte utilizza quei fondi come salvadanaio per le più disparate esigenze regionali. Dopo il 200l lo Stato produce diverse leggi per incrementare la riqualificazione dell’esistente e per nuove costruzioni di edilizia residenziale sociale: Programmi Integrati, PRU, Contratti di Quartiere, Programmi di recupero alloggi Iacp-ERP, Piani casa nazionali, che, a parte forse solo i PRU, producono pochissimo effetto pratico. Il decentramento regionale, complicato dall’autonomia legislativa di ogni singola regione, rende questi provvedimenti oggetto di ulteriore contrattazione politica e di applicazioni differenziate che rallenta  e devia, se non addirittura blocca, ogni iniziativa concreta susseguente,  mancando  una legge organica nazionale di indirizzo e di gestione  L’unica politica governativa in questo campo  è  quella di non passare attraverso le Regioni, ma di andare direttamente ai cittadini, utilizzando la leva fiscale. Infatti, dal 2013, la politica dei bonus, basata sulle detrazioni d’imposta al proprietario di casa in cambio d’interventi di ristrutturazione, riduzione del fabbisogno energetico e miglioramento sismico e altro ancora, incontra un discreto successo. Va detto però che i bonus hanno una platea di beneficiari limitata dal reddito. I bonus infatti non interessano quegli abitanti che pagano poche o niente imposte, che non hanno nulla da detrarre e che sono la maggioranza degli inquilini delle case pubbliche[8].

Una serie di avvenimenti socio politici, soprattutto la crisi economica del 2007/08 e il cambio di domanda sociale della casa pubblica, fatta da famiglie mono-parentali, immigrati, studenti, insieme a rapporti poco collaborativi tra Stato, Regioni e Comuni, produce  una sovrapposizione burocratica che complica  l’operatività degli interventi pubblici, già poco finanziati, facendo diventare il tema dell’alloggio in fitto a prezzo calmierato, una questione urgente nazionale per lo meno nelle aree metropolitane. Infatti il disagio nelle periferie delle grandi città si ingrandisce via via in rapporto all’aumento della povertà in generale, alla mancanza di adeguati servizi e trasporti, alla poco utilizzabilità dello spazio pubblico e all’ aumento dei costi energetici.  A partire dai provvedimenti del Piano nazionale di edilizia abitativa (DM 112/2008) fatto dal governo Berlusconi, l’intervento pubblico nel settore edilizio cambia registro. Nasce nel 2009 il Social housing, ovvero l’edilizia sociale privata, basata sul Fondo Investimenti per l’Abitare costituito dalla CDP Invest.sgr. che attira fondi istituzionali locali (Banche, Comuni, Associazioni, Aziende Casa etc.) e capitali privati in operazioni immobiliari pubblico-private di case a prezzo calmierato.  Il social housing è attualmente l’unico intervento attivo di costruzione di case economiche, sovracaricato da ambiziosi obiettivi come amalgamare case, politica urbana e politica sociale delle città. Le poche, ma innovative realizzazioni di social housing hanno prodotto piccoli, ma significativi interventi di case a canone moderato sia costruendo nuove case sia riqualificando edifici pubblici disponibili. Il social housing si presenta come un intervento immobiliare che unisce la domanda di casa in affitto o in proprietà, con gli obbiettivi delle Amministrazioni e gli interessi degli investitori privati.  Rispetto ad una previsione iniziale di circa 15/20.000 alloggi in cinque anni, il social housing ha realizzato circa 6000 alloggi, quasi tutti situati nel nord-Italia[9] che per qualità, innovazione e prezzo sono una piccola ma significativa realtà sociale che non ha concorrenti.

L’attività immobiliare del social housing è un’attività pubblico-privata, che cerca di unire la redditività dell’intervento ad aspetti socio-culturali come urbanità, socialità e architettura. La novità forse più evidente è che queste case sono progettate con particolare attenzione all’ambiente e prevedono il coinvolgimento degli inquilini in azioni di vicinato o comunitarie. L’edilizia sociale privata si limita a costruire case, e non costruisce servizi alla residenza (asili, centro sociale, chiesa, parco pubblico etc) che sono di competenza comunale e presenti solo quando accordi socio-economici tra Investitori e Comune li prevedono. Lo Stato si carica di circa il 3% dell’investimento, il resto è ottenuto con capitale privato gestito da Società di Gestione del risparmio che svolgono un lavoro di intermediazione tra pubblico e privato.

L’investimento si basa sulla fiducia degli investitori e degli Enti sulla buona riuscita dell’operazione, dove l’Ente pubblico assume il ruolo di regista e dove gli accordi pubblico-privato permettono un iter edilizio positivo e non troppo lungo.

Tale meccanismo finanziario trova adesioni molto più nel nord del paese che al centro sud, dove mancano Fondazioni bancarie, Associazioni interessate e investitori disponibili. Si manifesta di nuovo, in questo campo, una forte differenza socio-economica tra nord e sud del paese con l’effetto di sbilanciare le poche politiche abitative nazionali.

In sintesi il social housing poggia su quattro aspetti teorici: Economico-finanziario (sistema integrato fondi, CDP, Società di gestione e risparmio); Urbanistico, come mixitè funzionale; Architettonico-progettuale (concorsi di progettazione, Imprenditori); Sociale (mixitè sociale, gestione socio-economica dell’intervento), la cui intensità e completezza di applicazione è variabile. Per esempio il basso numero di alloggi costruito certo non migliora il disagio abitativo e il contesto della periferia, cosi come il fitto medio, ancora alto (in media 500/700 euro/mese per 70 mq.) per molte famiglie disagiate che solo con un bonus statale potrebbero diventare inquilini.  

Solo in alcune regioni e capoluoghi come Torino, Milano, Brescia, Parma, Bolzano, si presentano condizioni di accordo pubblico-privato che assicurano un buon esito per tutto l’arco della costruzione e che continua nella gestione dell’interventi.    Nella grande varietà delle realizzazioni alcuni elementi sono comuni. La dimensione per esempio oscilla tra 100 e 300 alloggi di medio (70 mq) e piccolo taglio (50 mq); attenzione all’innovazione come ricerca formale-strutturale, agli aspetti tecnologici, energetici e ambientali della costruzione, presenza di spazi cortilizi e pedonali e sensibilità al design.

 

25 anni fa è finita l’economia pubblica che ha sostenuto il capitalismo italiano e pressappoco nello stesso periodo sono finite anche le case popolari. Dopo l’esperienza negativa della Grande Dimensione, l’ultimo canto del cigno dell’intervento statale, non siamo stati in grado di rinnovare l’intervento pubblico

adeguandolo a mutate situazioni e nuove esigenze.  Forse dovremmo orientarci maggiormente verso un sano realismo e accettare la nostra storia di piccola-media dimensione, di capitalismo di provincia e di case economiche fatte da e con i privati.

 

 



[1] Per la verità le famiglie italiane sono proprietarie di casa con una percentuale del 70% del patrimonio, ma al Sud tale percentuale scende di molto, toccando a Napoli, per esempio, una percentuale di poco oltre il 50%.  Il numero di famiglie in povertà assoluta, sommato al numero di quelle che sono solo in povertà, raggiunge la cifra di circa 5 milioni, quasi un milione in più del 2017. Ma dopo la pandemia del 2020-22 le diseguaglianze sono aumentate cosi come la disparità tra nord e sud.  

 

[2] Cfr. Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, 2017

[3] Soprattutto il telaio meccanico e l’energia a vapore

[4]  Bonfanti, Scolari, La vicenda urbanistica e edilizia dell’ICP di Milano, Clup, 1981, pag. 11

[5] cfr. Grandi e Pracchi, Milano, guida all’architettura moderna, Zanichelli,1980, pag. 116,

[6] Cfr. G. Craiz, articolo Il paese spezzato, repubblica del 24/8/17 e il suo libro sull’Italia.

[7] B. Secchi, Il racconto urbanistico, Einaudi, 1984, pag. XXVII)

[8] Il reddito medio degli inquilini di case pubbliche è circa € 25.000/anno

[9] Cfr. Rapporto O.S.A.I.t, Abitare Sociale in Italia, 2011  


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