venerdì 25 gennaio 2019

Social Housing e Periferie , Introduzione


Prima di entrare in argomento vorrei sollevare alcune domande generali: 1. Ha senso oggi fare case pubbliche economiche per i senza casa ?  2.Fare case economiche per i meno abbienti è ancora  oggi un dovere, un servizio a carico  dello Stato? 3. Riqualificare i quartieri e la periferia delle grandi città è ancora un obbligo dello Stato ?
La mia risposta è si a tutte e tre le domande. Non credo che tutto possa essere lasciato all’iniziativa individuale o dei gruppi organizzati, magari con incentivi economici pubblici.
Ci occupiamo di progettare il miglioramento di un bisogno primario, non di un lusso, il bisogno di un riparo solido dove non ci piove, non tira vento e non fa né troppo caldo né troppo freddo; un bisogno primario come il lavoro e la salute, che Amartya Sen, economista e premio Nobel, chiama un bene capacitante come gli ospedali. 
La nostra Costituzione dice che ogni famiglia deve avere un alloggio adeguato, cosi come la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo prevede tra i diritti umani,  il  diritto all’abitazione. Nel 1969 i movimenti per la casa innalzavano striscioni del tipo “ Diritto alla casa”, e la politica rispose con una nuova legge per la casa e con la costruzione dei quartieri della Grande Dimensione che non sono stati un successo, ma hanno dato casa a molti disagiati.
Naturalmente questo diritto è un ideale sociale e umano cui tendere, e cui indirizzare le politiche dei governi. Ma non tutti gli Stati/Governi  sono uguali. In Germania non c’è nessuna emergenza casa mentre da noi ancora esiste un ampio bisogno casa.  Lo Stato italiano, a fine secolo scorso, ha smesso di fare case per i poveri e i disagiati. Le domande agli Enti per la Casa (ex Iacp, oggi Aziende Regionali) di famiglie che rientrano nei requisiti previsti dalla legge e con diritto all’alloggio sono oggi oltre 650.000, ma questi Enti non hanno nessuna possibilità economica di fare case nuove, non vengono finanziati.  Si stima che ce ne siano almeno altre 350.000 di senza casa e in condizioni di disagio. Ci sono quindi circa 1 milione di persone che aspettano invano dallo Stato una casa. Da alcuni anni lo Stato ha introdotto un fondo di sostegno per contribuire a pagare il fitto alle famiglie bisognose (circa 10 mil./anno )
 ma sembra che dal 2015 tale contributo non è stato più finanziato. Quindi lo Stato ha quasi smesso completamente ogni politica sociale verso le famiglie bisognose senza casa. In fondo siamo tornati a com’era nell’Ottocento, il cui motto liberale era: lo Stato non finanzia, lo Stato guida.  Oggi le famiglie italiane sono proprietarie di casa per circa il 75% (al Sud e a Napoli poco oltre il 50%), ma quelle in povertà assoluta insieme quelle che sono solo in povertà sono circa 5 milioni, quasi un milione in più del 2017. 
(Le famiglie in povertà assoluta sono quelle che in due persone spendono meno di 1000/mese; quelle quasi povere, spendono 1100/mese; in tre persone 1400/mese, cfr.: https://www.ilfoglio.it/cronache/2017/03/07/news/italia-legge-contrasto-poverta-senato-fact-checking-124102 )  
Non tutto fila liscio nei meccanismi di assegnazione delle poche case che ancora si costruiscono, gestite dalle Aziende casa e dai Comuni  coi programmi  chiamati “ Contratti di Quartiere”.  Per esempio come sapete, le Vele sono destinate alla demolizione salvo la Vela B, ma queste  case sono state occupate in parte  abusivamente e  il Comune  ha trovato  con difficoltà e lentezza di anni,  nuovi alloggi  per gli occupanti. Ma succede che le case liberate vengono poi rioccupate da altri bisognosi che sperano anche loro in un alloggio comunale.  E’ un movimento di senza casa spesso non legale, qualche volta camorristico, ma la base dei "senza casa" è cosi ampia a Napoli che sembra non si esaurisca mai. 

L’intervento pubblico per dare case ai lavoratori è nato a cavallo tra Ottocento e Novecento, per merito dei filantropi e dei liberali che con Giolitti hanno emanato la legge Luzzatti nel 1903.
Per tutto il secolo scorso lo Stato,  attraverso la legge Luzzatti,   ha costruito case per lavoratori poveri, contribuito finanziariamente alla costruzione  di case  a riscatto per ceti medi poveri e per gruppi di famiglie  che hanno costituito società cooperative. L’Italia non è stata generosa di case con i poveri e con i lavoratori; il patrimonio pubblico italiano ammonta oggi a circa il 7% del patrimonio totale delle case, mentre, per esempio in Germania e in Francia, ammonta a oltre il 20%.
La situazione oggi è che, cambiate le condizioni socio economiche del paese, vengono richieste  soprattutto case in affitto, e non case in proprietà perchè l’affitto è più  sostenibile dal nuovo  tipo di lavoro,  non stabile e precario , e dai molti nuclei monofamiliari oggi esistenti. Certo possedere oggi una casa pubblica è una fortuna, fitti molto bassi e una casa per sempre! Ma, come detto, c’è ne sono veramente poche. Il mercato immobiliare privato ha talmente aumentato i prezzi  di acquisto dalla crisi dei mutui occidentali del 2008, che per comprare una casa oggi servono venti anni di reddito da lavoro normale; come dire,  serve il reddito di metà vita lavorativa !

In questo Corso su Social Housing e periferie, ci occupiamo di case per non ricchi e non benestanti, oggi poco aiutati dallo Stato, il quale preferisce dare loro un reddito di cittadinanza (o d’inclusione) senza chiedere contropartite. Questa appare una politica che non sviluppa occupazione, diseducativa, anti-sociale e senza futuro. In Germania esiste il reddito da occupazione: a tutti i giovani tedeschi, le aziende propongono un lavoro  retribuito per un periodo limitato di tempo, che lo Stato poi risarcisce alle aziende stesse.
Cosa si può fare all’Università per sostenere il miglioramento delle condizioni  abitative dei non abbienti: quali interventi sono  possibili ?
Dice Platone che per aprire i cervelli alle persone bisogna prima aprire i cuori con l’amore per il prossimo!  Credo che voi avete come studenti di architettura, ovvero il periodo storico nel quale vivete vi incarica di una missione sociale: non solo sviluppare la bellezza nelle città,  ma anche contribuire al miglioramento abitativo dei meno abbienti. Riqualificazione delle periferie e fare case per migliorare la vita dei bisognosi.  Sono questi due ideali che, come architetti, vi dovrebbero guidare nella vostra formazione e nella vostra attività per tutto questo secolo: case confortevoli, durevoli ed economiche, e ben collegate al centro città.  

Lo Stato Ottocentesco, attento ai confini, alla costruzione della nazione, alla difesa della religione di Stato, alla moralità pubblica, alla formazione dei cittadini come comunità con lingua e ideali comuni (patriottismo), non costruiva case per il popolo   cosi come non si occupava della sua formazione e della sua salute (cfr. i racconti Charles Dickens per Londra. Oliver Twist).   Delle case e delle condizioni di vita dei lavoratori  se ne occupavano   solo delle Associazioni private di persone  filantropiche, di  cultura liberale o cattolica  e soprattutto ricche,  oppure, al Nord Italia là dove si sviluppava l’industria , alcune grandi  aziende  manifatturiere  costruivano  villaggi operai  per i propri  dipendenti  (Crespi d’Adda, Leumann, Rossi, poi nel novecento Torviscosa, Olivetti, Italsider, etc.; https://initalia.virgilio.it/archeologia-industri, ale-in-italia-i-villaggi-operai-4422).
Queste Associazioni private, di filantropi e nobili, d’ingegneri sanitari, e di Imprese con politiche sociali, cercavano di migliorare le peggiori situazioni di vita tra i lavoratori poveri: promiscuità abitativa (tre/quattro persone per stanza), alloggi senza soggiorno, mancanza d’igiene, senza WC interni, e con scarsità di acqua corrente, mancanza di sole e di aria. A Napoli, cosi come l’Anonima Cooperativa a Bologna, l’Umanitaria a Milano, la Soc. Torinese per le abitazioni popolari, realizzavano case economiche per i lavoratori.
Marino Turchi, a Napoli, ha costruisce nel 1870 circa l’edificio della Filantropica sulla via per Capodimonte; affittava a lavoratori con buona moralità pubblica (senza risse, ubriachezza, furti, etc), con reddito da lavoro, figli a scuola e non in strada.

Lo Stato Novecentesco, nella prima metà del secolo si fa carico della casa popolare ma continua la politica liberale di investire assai poco. Attraverso banche e altri Enti concede terreni non di valore, tutti posti lontano dal centro e contribuisce ad abbassare gli interessi sui mutui che gli Enti contraggono. Anche attraverso le Esposizioni Universali e le esperienze inglesi, il dibattito sulle migliori soluzioni per le case dei lavoratori ebbe una discreta diffusione, interessò politici e ingegneri. I modelli oscillavano tra casette unifamiliari, palazzine a più piani, città –giardino, edifici a blocco tipo Mietkasernem.  L’arrivo del fascismo esautora i Comuni, accentrata la gestione a Roma nei Ministeri. Lo Stato aumenta i finanziamenti e dirige gli investimenti su case per il pubblico impiego statale alle quali da uno stile riconoscibile (giustizia, polizia, corpi militari, etc), tralasciando di costruire per i ceti meno abbienti.   
Nel secondo dopoguerra lo Stato cerca di dare una casa a tutti, ma ci riesce poco.   Finanzia le case popolari ma i contributi maggiori sono a carico dei lavoratori e delle aziende, con un prelievo direttamente in busta paga, e a carico, almeno fino al 1970. Nascono cosi i complessi di case messi insieme a formare quartieri, tutti fuori città, da 2000 a 5000 e 10.000 abitanti. Si forma una periferia pubblica che orienta anche la residenza privata.  Gli Enti per la casa, l’Ina in particolare,  tentano di fare case e servizi , ma non hanno i mezzi finanziari e realizzano i servizi solo dove possono e con molto ritardo non ci riescono. L’urbanistica non si occupa di disegnare la periferia, che è lasciata in balia delle poche regole edilizie comunali e all’arbitrio almeno fino al 1962 (legge 167sull’esproprio dei terreni per pubblica utilità). Intanto Ina Casa e Gescal fanno quartieri su misura che funzionano bene con encomiabili attenzioni sociali.   Poi lo Iacp, spinto dalla politica, prova a realizzare in poco tempo grandi edifici e ampi quartieri per alloggiare masse di poveri, ma i risultati sono pessimi.  Intorno agli anni ottanta i finanziamenti per le case pubbliche finiscono, lo Stato passa alle Regioni la materia dell’edilizia pubblica, nel giro di qualche anno ancora, si ferma completamente: le Regioni non investono in edilizia pubblica e i finanziamenti rimasti, sono dirottati altrove. 
Il Social Housing
Nel nuovo secolo si evidenziano modifiche sociali considerevoli, formatesi nel corso degli anni precedenti: soprattutto si affermano i valori dell’individualismo e della ritirata sociale dello Stato che disincentivano l’intervento pubblico in questo settore.
Nuove questioni culturali s’incentrano sulle conseguenze di un ampliamento del potere dell'individuo  ed un riduzione  del sentimento sociale: più poteri e responsabilità  all’individuo meno poteri e responsabilità allo Stato che in fondo minano il cosi detto bene pubblico   Ci sono  un inizio di  liquefazione dello Stato assistenziale e autoritario  del Novecento , una de-responsabilizzazione e imboscamento del potere, una responsabilizzazione del futuro di ogni individuo  che può contare solo su se stesso. Da una parte aumenta la percezione dell’insicurezza sociale (minore sicurezza fisica personale e lavoro instabile), dall’altra si allarga l’illusione della libertà individuale senza confini: c’è uno scambio, maggiore libertà individuale minore sicurezza sociale e questo scambio riduce e svilisce tutto ciò che è pubblico, anche lo spazio pubblico.   
In Italia, paese molto fragile e poco unito, uno Stato debole accumula dal 1970 un debito pubblico progressivo, che dal 37% del Pil arriva, alla fine dell’intervento pubblico nel 1990, quasi a triplicarsi. Tale debolezza economica contribuisce a metterci alla mercé dei venti di borsa e delle aspettative di guadagno  degli acquirenti dei nostri titoli pubblici (attualmente lo Stato paga ai privati compratori dei suoi titoli, tra cui molti italiani,   circa 65 mld. di euro l’anno).
L’insieme di questi nuovi valori e la crisi economica dei mutui del 2007 contribuisce  alla riduzione/cessazione in Italia di ogni attività di costruzione di case pubbliche , mentre le case private costruite in grande numero rimangono invendute. C’è un grande invenduto nazionale, sia di residenze sia di terziario, insieme a fallimenti di aziende che vengono rilevate dalle banche creditrici che si  ingolfano di case a garanzia dei mutui  ( Il premier Renzi propose nel 2017  di comprare sotto costo dalle banche 20.000 alloggi già fatti ma la proposta non è diventa legge) .
Termina cosi l’edilizia pubblica e inizia l’edilizia sociale privata che di tanto in tanto fa operazioni immobiliari con reddito calmierato in accordo coi Comuni.  Essa si basa sui Fondi Immobiliari bancari che finanziano la costruzione del S.H.. Si costruiscono case per ceti medi impoveriti dalla crisi e non per famiglie disagiate (le case non sono per i poveri, ai quali viene dato dal Governo  un bonus casa e non più case) . Sono famiglie e persone che cercano case in fitto soprattutto, perché gli acquisti sono troppo onerosi (una casa pubblica ha un fitto di 100 euro/mese, una casa di Social Housing ha un fitto mensile di almeno 500 euro, una casa privata in una grande città circa 800 euro). Ma  le case realizzate sono cosi poche (finanziati circa 4300 alloggi),   che non scalfiscono la richiesta sociale di abitazioni economiche che ammonta oggi a 600.ooo domande. Abbiamo un disagio abitativo che deriva dalle poche case pubbliche costruite nel 900 (circa il 5% del totale a fronte di una media 25% di paesi come Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Olanda, etc.) e dal  fatto che gli alloggi pubblici non hanno nessuna mobilità (cambio e sostituzione di inquilini), e che le occupazioni  vengono tollerate.

Il Piano Casa del 2008 (DL 112/2008) ha previsto l’intervento privato, o pubblico-privato, nella costruzione di case sociali, cioè a prezzi calmierati. Sono previste tre categorie di finanziamento pubblico: L’edilizia sovvenzionata è quella a totale carico dello Stato (ormai quasi azzerata), l’edilizia agevolata dove si ha un cofinanziamento pubblico, l’edilizia convenzionata, che è fatta da privati con contributi fiscali pubblici o di tipo urbanistico.
Il Social Housing è un’edilizia sociale di mercato, cioè privata con contributi pubblici; ma spesso in Italia gli interventi contengono tipi diversi finanziamenti statali, mischiati insieme, le cui case vengono chiamati impropriamente Social Housing.  
 La legge Piano casa 2008 ha creato i Fondi Immobiliari bancari Si prevede che i Fondi insieme con altri soggetti, investono in edilizia sociale privata a certe condizioni. Il meccanismo si basa sul fatto che i Comuni o le Regioni, per rispondere al disagio abitativo, prevedano negli strumenti pianificatori, aree da destinare a nuova edilizia sociale o immobili da riqualificare, e da destinare a coppie, anziani, giovani, persone in co-housing. In un rapporto di partenariato pubblico privato, utilizzando fondi nazionali, regionali o comunali, si stringano accordi con i privati ( Cooperative, Fondi Immob. , Imprese, Associazioni no profit) per costruire  su aree  pubbliche o riqualificare  edifici pubblici. L’accordo prevede case da vendere a libero mercato, case da affittare a prezzi calmierati,  ed anche case di proprietà pubblica ERP da fittare o vendere.
Le esperienze migliori oggi si trovano soprattutto a Milano (via Cenni, via Gallarate, via Civitavecchia) , ma anche a Torino, Parma e Bolzano ,   in quei Comuni si sono attivati, facendo anche gare di progettazione per realizzare  interventi di SH.

 I caratteri del progetto architettonico del Social Housing
Da una breve panoramica degli interventi attuali, sul piano dell’urbanistica e dell’architettura, si può dire che considerando che gli interventi prevedono costruzione, gestione e redditività per gli alloggi privati in fitto o vendita (si considera circa 3% annuo+ inflaz.) Emergono dei punti forti che si possono sintetizzare: molta attenzione alle questioni ambientali ed energetiche come fotovoltaico, termico solare, pareti isolanti, abbattimento rumore, riduzione consumo acqua, aumento del verde e della mobilità pubblica. Inoltre le società di gestione cercano di creare tra gli inquilini/proprietari un mix sociale il più ampio possibile, inserire larghe zone di parco, progettare parti degli interventi con alloggi piccoli e flessibili per aggregazioni diverse, prestare molta attenzione alla morfologia  non uniforme dell’intervento, e alla forma dell’edificio con dettagli qualificanti, ed infine  attenzione al basso costo di costruzione e di manutenzione.   
In sintesi le forme di finanziamento in partenariato pubblico/privato e i modi di utilizzo degli alloggi, sono cosi diversi che il successo di un intervento di Social Housing dipendere soprattutto dalla capacità dell’Ente pubblico di articolare proposte e accordi e fare da regista dell’operazione.    
Cfr.: Sergio Stenti, Fare quartiere, Clean, Napoli, 2016


Social Housing e Periferie 2.Case operaie nella seconda metà dell'Ottocento



Nell’Ottocento non ci sono interventi pubblici sulla casa ma solo  interventi  privati di tipo assistenziale, cooperativistico o di mutuo soccorso che si realizzano nella seconda metà del secolo, dopo l’Unità d’Italia a seguito del tardo sviluppo industriale italiano. Accanto a questi interventi sporadici ci sono alcuni villaggi operai fatti da capitalisti illuminati, vicino alle fabbriche, che si rifanno a modelli inglesi, francesi e  belgi. Vanno anche ricordati alcuni interventi alternativi alla città storica, tutti d’ispirazione socialista, in Francia e in Inghilterra soprattutto, e  tutti fuori città, che hanno influenzato l’architettura della casa economica nel secolo successivo. Le tipologie più diffuse per le case operaie sono il villino plurifamiliare in periferia, il blocco urbano pluripiano con piccoli cortili in città, e isolati di case a schiera accostate .  Diverse le sperimentazioni tipologiche della ricerca socialista che miravano a costruire non case ma città-modello per nuove comunità.
Rispetto all’epoca precedente,ora la rivoluzione industriale e lo sviluppo tecnico scientifico indirizzano la società europea (telaio meccanico e energia a vapore,)  e rappresentano  i motori culturali , sociali ed  economici del periodo . Le condizioni di vita, salute, istruzione e lavoro, e l’abitazione delle classi povere e dei lavoratori inurbati peggiorano notevolmente anche a causa dello  sfruttamento della mano d’opera senza vincoli. In particolare nelle città dove crescono gli abitanti a spese delle campagne (gli immigrati di allora), s’ingrandiscono i borghi fuori città, si formano le periferie e gli slums a causa della immigrazione, si sviluppa la rete dei trasporti su ferro.
Un esempio tipico è la città di Manchester che passa dal 1790 circa al 1830 da 25.000 abitanti a 250.000, un urbanesimo sconvolgente che Charles Dickens e Friedrich Engels raccontano  dal vero. Sul piano sociale i nuovi Stati nazionali costruiscono se stessi con un’ideologia unitaria che rappresentano nelle proprie istituzioni: parlamenti, ospedali, prigioni, cimiteri, biblioteche, chiese, teatri, usando forme eclettiche, spesso classiciste, e dimensioni monumentali. Si rinnova il centro città, con sventramenti e risanamenti, si rinnovano le abitazioni, si costruiscono o ristrutturano gli edifici come case d’affitto, cioè  da reddito,  solo “ una superficie....tutto utile” dove nessun spazio è sprecato.
Il capitalismo spinge la diffusione delle scoperte, delle invenzioni e del nuovo stile di vita attraverso ricorrenti grandi Esposizioni Internazionali (come le Expo) a partire dalla prima,  quella di Londra nel 1851, e  che hanno molta risonanza culturale.
L’urbanistica è quasi assente nel disegno dell’espansione urbana, salvo importanti interventi borghesi come i boulevard haussmanniani a Parigi, Regents park a Londra, quartiere Prati a Roma, via Po a Torino, Ringstrasse a Vienna, etc. Ma la periferia nasce come terra di nessuno: nessuna regola, civile, sanitaria, morale, urbanistica; essa è lasciata al puro lassez faire della politica liberale: depositi, fabbriche, case, commercio, strade senza fogne, rifiuti, baraccopoli. Si verifica una preoccupante congestione urbana che facilita epidemie di tubercolosi e poi di colera, scarseggia l’acqua corrente, mancano fogne, attrezzature igieniche, ventilazione negli ambienti, raccolta immondizie.   
 Per reazione allo sfruttamento capitalista del lavoro nascono nuovi movimenti sociali di opposizione e di riforma (attivismo religioso, socialismo, Arts and Crafts, etc.), che hanno assai poco successo, come le associazioni di filantropi o di mutuo soccorso tra operai che mitigano di poco i disagi della povertà. Ci sono anche tentativi di riforma sociale e progetti di modelli di vita alternativa alla legge del profitto ad opera di socialisti più o meno utopisti che realizzano comunità   in Francia (Fourier, Falansterio 1817,  e Godin  il Familisterio di Guisa, 1884) e in Gran Bretagna (Owen, villaggi armonia e cooperazione, 1817).   L’architettura prende a prestito tutti gli stili del passato: Gotico, Romanico, Rinascimento e li mischia e li usa come vuole: le banche sono neoclassiche, le chiese neoromaniche o gotiche, le case  cottage inglesi, ma per le sedi istituzionali del nuovo Stato viene utilizzato spesso  un classicismo rivisitato, romantico o strutturale.  La ricerca scientifica sviluppa anche esperimenti tecnologici col ferro e col vetro: grandi ambienti, grandi coperture per nuovi edifici per il grande pubblico,  musei, biblioteche, etc. Si sviluppa anche un filone funzionale ed ingegneristico che  studia le funzioni e soprattutto  le ragioni della costruzione e dei materiali che influenzeranno i pionieri del movimento moderno;  questo filone disegna fabbriche funzionali, case igieniche, ponti, strade , ferrovie, e  quartieri d’abitazione, togliendo il superfluo e riducendo lo spazio vitale.
L’indispensabile costruzione di case operaie in periferia per i nuovi arrivati oltre ad essere un problema sociale era anche un problema edilizio. Ingegneri sanitari studiano soluzioni per case economiche e salubri, diffuse anche attraverso le Esposizioni universali (H. Roberts, studi di case operaie e un cottage a 4 famiglie con scala centrale alla Esposizione del 1851);  ma la questione sociale dell’abitazione rimarrà da noi irrisolta almeno fino agli anni settanta del Novecento.
In Inghilterra verso il 1870 si emanano le prime leggi a favore di un’edilizia pubblica per le classi operaie che trova applicazione verso il 1893 a Londra, ma le condizioni di vita operaia non cambiano. Lo sviluppo delle fabbriche talvolta produce per volontà di padroni illuminati, anche villaggi per i dipendenti, vere città/fabbrica con i servizi per il lavoro salariato (Crespi d’Adda, Schio, Leumann, Gualino  etc).  In città iniziano a costruirsi edifici a blocco da affitto, tipo Mietskasernen, o tipi a cortile molto piccolo con ballatoio, a doppio corpo, alloggi di due stanze, tre persone a stanza, senza balconi e senza decori stilisti. A Napoli questi edifici si realizzeranno e fine secolo al Vasto, all’Arenaccia per gli sfollati del centro storico dopo il colera, ad opera della Società del Risanamento. 
Settori sensibili della società, capitalisti, nobiltà, riformatori,  banchieri, in risposta alle condizioni deplorevoli e di sfruttamento della nascente classe operaia e dei poveri abbandonati  a se stessi, nelle città dove si espande l’industria, come  Milano e Torino, creano Associazioni  Filantropiche , unendo capitale e  lavoro,  cercano di realizzare concreti miglioramenti dello stato dei lavoratori e dei poveri, con assistenza sanitaria,  beneficienza, formazione professionale, educazione civile, sostentamento e anche abitazioni salubri   Attività che in parte continuano ancora oggi,  con le Fondazioni bancarie come il Banco di Napoli, Cariplo, san Paolo etc. 
  
Casa modello la Filantropica, Corso Amedeo di Savoia, Napoli , 1868
Marino Turchi , politico ed ingegnere sanitario, fonda, insieme ad altri sostenitori intellettuali come Matteo Schilizzi, la Società Filantropica Napoletana per il miglioramento della classe lavoratrice. Utilizzando donazioni di suoli e finanziamenti privati, realizza, su progetto di G. Fiocca nel 1868, una casa modello con circa 180 alloggi bi-esposizionali, posta in collina, sulla strada per Capodimonte. L’assegnazione alle famiglie di lavoratori era attenta e severa e richiedeva alcune condizioni di base: niente gioco d’azzardo, ubriachezza, molestia pubblica, niente debiti e figli tutti a scuola . (cfr.: S.Stenti, Napoli Moderna, città e case popolari, 1998, Clean, Napoli )

Milano via S. Fermo, 1862, Società di case operaie, bagni e lavatoi, F. Sarti, C. Cereda, C. Osnago
E’ tra i primi esempi di edilizia sociale a Milano. Realizzato tra il 1862 e il 1868 dalla “Società Edificatrice di Case per operai, Bagni e Lavatoi pubblici” su progetto degli  architetti Francesco Sarti, Carlo Cereda e Cesare Osnago, il complesso si distingue per l'interessante scelta di non ricorrere ai ballatoi esterni per la distribuzione, ma a scale indipendenti: una scala due alloggi  bi-esposizionali di due vani ciascuno.

Milano, via  Conservatorio, ora Lincon, 1882, Società Edificatrice abitazioni operaie una specie di società di mutuo soccorso con case cooperative, due isolati di palazzine a due piani con giardino, e alloggi duplex; ora case borghesi rinnovate e molto appetite.

I Villaggi operai, Crespi d’Adda, Schio, Rossi,
Influenzate dall’Europa del nord, le Aziende  in Italia  costruiscono villaggi operai come a Schio, Leumann, Crespi che sono pensati come macchine per lavorare e per abitare, dove i movimenti collettivi si sviluppano lungo percorsi predeterminati, tra alcuni luoghi deputati […] e in tempi che lasciano poche possibilità di varianti individuali. In compenso i villaggi  offrono una “qualità della vita” certamente superiore rispetto agli standard della classe operaia tra 1870 e 1880,  relativamente ad abitazione, servizi igienico-sanitari, educazione, possibilità di svago

 Il villaggio di Crespi (circa 1000 abitanti nel 1900), 1878, è costruito attorno a due assi perpendicolari: il primo, parallelo al fiume Adda, attraversa tutto il paese fino al cimitero, simbolicamente collocato alla fine della strada; il secondo, che s’incrocia col primo davanti all’ingresso della fabbrica, in un punto che è anche il centro geografico del paese, collega il corpo centrale degli opifici alla piazza alberata, luogo deputato per gli incontri e la vita sociale degli abitanti. Le case operaie sono situate entro l’ordine di un reticolo regolare di vie che fanno capo anch’esse alla fabbrica, il centro reale della comunità, dominata dall’immagine della ciminiera, molto simbolica e sostitutiva di altri segni dell’autorità decaduti come la torre medievale o il campanile. Si fa però ancora evidente riferimento ai modelli di un potere tradizionale attraverso la presenza - in posizione significativamente eccentrica rispetto alla griglia delle vie operaie -  dell’abitazione del proprietario (un castello) e della chiesa. La gerarchia viene formalizzata dalla ben più importante dignità architettonica attribuita alle costruzioni che rappresentano il potere.

Villaggio  Napoleone Leumann, cotonificio, 1875-1972, Collegno, villette su due piani, orto giardino, una piccola città ben attrezzata di servizi e divertimenti, architettura vernacolare, da chalet svizzero, al centro la fabbrica, ampliamento , disegnato , doppia fila di casette con piazzetta, tutto   in stile liberty da Pietro Fenoglio, a cavallo del secolo,  circa 1893.1902

Villaggio Rossi , a Schio, edifici industriali d’ispirazione franco-belga, A.  Rossi e discendenti, impegnati per molte generazioni, lanificio e tessuti, Intervento di case nel paese di Schio, case di cortina a schiera, un “quartiere nuovo” e “nuovissimo” non separato dal paese, ma solo case senza commercio.   Case cedute a riscatto agli operai, al prezzo di costo.  200 alloggi, 1500 abitanti. Il quartiere è stato in parte snaturato da interventi successivi

Progetti dei socialisti utopisti.   Il familisterio di J. A. Godin meno ideologico del falansterio di Fourier ma sulla stessa linea di pensiero di riforma sociale alternativa. Era un tentativo di comunità societaria ordinata, posta fuori la città e autonoma, fabbrica, case, servizi collettivi e teatro, che voleva prefigurare una nuova società e una nuova città, eliminando la contrapposizione tra città e campagna, tra lavoro salariato e proprietà dei mezzi di produzione.  Il progetto riproponeva una disposizione coma la reggia di Versailles, come il falansterio di Fourier che aveva tre blocchi di cui quello centrale dedicato spazi collettivi o pubblici, e quelle laterali a laboratori.  L’esempio di Godin, forse l’unico esempio alternativo al capitalismo industriale ebbe il merito di proporre un sistema industriale e sociale ( 1200 persone) di tipo cooperativo che funzionò davvero per molti anni. Quelle proposte influenzarono molte proposte sia della città giardino e sia del movimento moderno, come l’Unitè d’abitation di L.C..

Le Esposizioni Universali, basate sui progressi dell’Industria, sull’uso di nuovi materiali come il ferro e il vetro, tra le altre cose, contribuirono anche a diffondere studi e proposte per l’edilizia economica e le case operaie a partire dalla prima a  Londra del 1851; l’ultima Expo è stata a Milano nel 2015.





Social Housing e Periferie 3. Primo Novecento


Nella seconda metà dell’Ottocento, la filantropia, il mutuo soccorso operaio, i villaggi operai delle industrie, insieme al pensiero socialista, creano le condizioni per una trasformazione della politica liberale. Sul tema della casa emerge una maggiore attenzione al sociale e al problema tecnico che spinge gli Stati nazionali ad interventi  pubblici di case economiche  per mitigare i disagi abitativi dovuti all’anarchia dello sviluppo industriale e agli immigrati dalle campagne.
Inoltre, sul piano culturale la nascita delle Garden Cities inglesi a cavallo del secolo, mostra anche un diverso modo di fare nuove città, alternativo alla congestione industriale capitalistica della città ottocentesca, e anche adatto ad ampliare le città  esistenti: casette individuali, bassa densità, molto verde: un modello di città che sarà  poco usato da noi e solo per ceti medi impiegatizi in borgate giardino come  la Garbatella e Aniene a Roma, ea  Cusano Milanino.
Quello che accade alla città ad inizio novecento oltre alle sconquasso delle nuove infrastrutture (tram e treni e allargamenti stradali, infrastrutture primarie,  etc.) conferma i tracciati urbani e i disegni di ampliamento. L’urbanizzazione è poco vincolata, spesso “ a macchia d’olio”, con interventi disordinati che non costruiscono nuovi luoghi. Solo l’uso morfologico dell’isolato garantisce la permanenza della forma urbana che si lacera invece nel secondo dopoguerra con l’enorme espansione delle città, quando gli interventi prenderanno forme libere e autonome, rompendo l’unità storica urbana.

1903-1925
Nel 1903 il governo Giolitti emana la legge Luzzatti, (1903, rivista 1908) che prevede per ogni Comune la costituzione di un Ente (morale) per realizzare case popolari (ICP) per lavoratori, artigiani, commercianti, e sostenere società cooperative. E’ una legge liberale e interclassista che evidenzia in tutto il paese, la necessità di affrontare il tema delle case per i lavoratori ormai fatto concreto e negativo dello sviluppo industriale e della periferia urbana. Lo Stato però non finanzia le opere, ma si limita a guidare il processo di attuazione; lo Stato concede esenzioni fiscali, paga in parte gli interessi sui mutui contratti dagli ICP, e qualche volta concede suoli. Gli ICP non nascono come Enti pubblici (a Milano l’esperienza socialista nel Comune che aveva costituito un Ente municipale a carico del Comune che si occupava di case popolari,  era stata interrotta dall’alleanza tra liberali e conservatori),  stanno a metà tra le Municipalizzate comunali  che impegnavano   il bilancio comunale e la libera iniziativa immobiliare : insomma  i nuovi ICP nascono come  Enti economici autonomi, detti Enti morali (sociali)  che  costruiscono case e le gestiscono coi soldi degli affitti e le donazioni della beneficienza privata o pubblica.    
La politica liberale considerava la casa, un capitale e il fitto come interesse (M. Bonfanti e Scolari, La vicenda politica e urbanistica dell’ICP di Milano, pag. 11), e la legge Luzzatti ne fu l’espressione. 
La legge, articolata in norme redatte da ogni singolo ente comunale, prevedeva che per accedere a una casa popolare bisognava avere buona condotta e reddito da lavoro.
I fitti erano medio-bassi rispetto al libero mercato, pari a circa il 3/4% del costo complessivo, ma non di rado i fitti erano oltre le possibilità economiche degli inquilini che potevano però usufruire saltuariamente di qualche riduzione sociale che gli Istituti offrivano.   C’è da dire che i pochi quartieri realizzati fino alla 1° guerra mondiale non erano molto appetibili perché abbastanza lontani dal centro e poco serviti, per cui molti alloggi erano sfitti.
Capitalismo industriale e movimento operaio si sviluppano da noi soprattutto nell'Italia settentrionale, a Milano e Torino ed è lì che sorgono questioni sociali e politiche sulla penuria e le cattive condizioni delle abitazioni, ma anche iniziative e dibattiti  politici sui modi degli interventi. Soprattutto gli ingegneri si occupavano delle case popolari, gli architetti (professione nata ufficialmente nel 1923) invece erano ancora impantanati nel dibattito sugli stili storici e il liberty, operando soprattutto nel restauro. Gli architetti emergeranno solo a metà anni  trenta schierati tra classicismo e razionalismo.
Il dibattito sulle proposte tipologiche della casa popolare oscilla tra soluzioni a casette isolate, edifici a blocco, edifici di altezza media.
 Le realizzazioni degli ICP sperimentano soprattutto: edifici di altezza media e edifici a cortile, e soprattutto a Roma, per ceti impiegatizi  tipologie a villini plurifamiliari. Al ceto lavoratore si propongono soprattutto edifici a quattro piani, a corte o in linea con alloggi di due vani, mentre ai ceti medi impiegatizi, che una legge del 1926 consentiva di finanziare col sistema del riscatto, alloggi più grandi a riscatto.
Gli ingegneri guardavano alla casa popolare come casa economica,  come  problema ” tecnico, igienico, economico, sociale” e proponevano sperimentazioni disordinate e isolate, ma dentro le  maglie dei piani di espansione 
La prima guerra mondiale porta una cesura tra il prima e il dopo esaltata dalla nascita nel 1925, che  cambia completamente la politica sociale verso i lavoratori e  degli ICP.

Tra gli interventi di questo periodo possiamo citare:
 il Quartiere di via Solari, 1905-06, Milano, Società. Umanitaria, 240 alloggi, 480 locali; un isolato a palazzine di quattro piani, unite da corpi ad un piano, con edifici per servizi al centro dello spazio cortilizio.  La Soc. Umanitaria (fondata dal banchiere Moisè Loria nel 1893) aveva uno spirito filantropico di assistenza e previdenza dei diseredati (cfr.: Milano, Grandi e Pracchi, pag. 116, intervento simile al Luzzatti a Napoli) e realizza due esempi modello di case popolari, con  impianto con edifici di bordo su strada, densità contenuta, spazi interni di un certo respiro, palazzine con 4 alloggi a piano di due vani, latrine sul balcone.  
Il Quartiere Mac MAHON, via Mac Mahon, 1908-09, Milano, Uff. Tecnico Comune di Milano, G. Ferrini. Nel quale il Comune sperimenta tipologie popolari a corte, a villini, a corti lunghe, a  case  a schiera a due piani. Tutte variazioni contenute dentro isolati rettangolari, tipici dei piani di espansione. Scolari pag. 50).
A Roma gli interventi espansivi sul tipo della borgata giardino a palazzine e villini hanno il merito di proporre una riflessione urbana sulla periferia imperniata sul disegno degli spazi pubblici, sul verde e sulle piazze, veri motori di sperimentazione stilistica neo medievale e rinascimentale, comunque enfatizzati verso il monumentale.
Viene realizzata la Città giardino Aniene, Roma, ICP, G. Giovannoni, I. Sabbatini, 1920-, un quartiere per ceti medi impiegatizi, ferrovieri e altri, con un impianto a strade curvilinee, un romanticismo da garden city, con bassa densità, palazzine e villini nel verde, parco pubblico, e un’architettura di luoghi che propone spazi urbani.
Nella Borgata giardino Garbatella, piazza B. Brin, Roma, 1920-22, ICP, G. Giovannoni, Massimo Piacentini, 190 alloggi. La legge Luzzatti consentiva interventi a favore dei lavoratori, ma anche interventi a favore di società cooperative. Alla Garbatella l’ICP realizza una borgata giardino per ceti medi impiegatizi già iniziata da altre società. G. Giovannoni e M Piacentini disegnano un quartiere giardino a villette, su una collina vicino in via Ostiense nella previsione, non avveratasi, di uno sviluppo industriale conseguente al progetto di navigabilità del Tevere. L’impianto a casette isolate e giardino, servizi, scuole e commercio, è qualificato da strade curvilinee, scalinate, piazze e da qualche palazzo di maggiori dimensioni sulla piazza Brin, centro del nuovo quartiere, che viene disegnato da Giovannoni con vaghi riferimenti sia ai sobborghi giardino inglesi, sia soprattutto al vernacolo dei piccoli comuni laziali, intrecciando riferimenti stilistici neo-medievali col barocchetto romano.
La bassa densità, il notevole verde privato e pubblico, le strade curvilinee, le decorazioni abbondanti, le piazzette disegnate, conferiscono all’intervento una sua qualità ambientale, una vita quieta, quasi da paese con qualche tocco urbano come il teatro e i bagni pubblici di I. Sabbatini. Dal 1927, complici gli sventramenti fascisti e i numerosi sfollati, si realizzano nuovi interventi molto intensivi che eliminano il verde e addensano fabbriche, gli alberghi rossi, che snaturano il quieto l’ambiente paesano a bassa densità.  Sono condomini di molti piani, che disegnano tre nuove piazze, con edifici che formano cortili chiusi mistilinei, con volumi articolati e scalettati. Progettati da I. Sabbatini, questi edifici monumentali immettono nel quartiere caratteri nuovi, urbani e moderni, pur conservando un’impronta classicista. Qualche timido esempio di razionalismo italianizzato si mostra nel 1928 a seguito della mostra internazionale di Roma  del  1928,  in piazza  S. Eurosia: De Renzi, Marconi,  Vietti, Marchi, Cancellotti cercano di uscire dal barocchetto egemone nel quartiere.
 Insolita la Casa a gradoni S. Ippolito, via della Lega Lombarda, Roma, 1929-30, ICP, I. Sabbatini, 89 alloggi piccoli , di due tre stanze. 6 gruppi scale con tre alloggi a scala senza balconi.  E’ un isolato a blocco di forma triangolare con piccolo cortile e piano terra commerciale. Un’architettura tettonica, di volumi, caratterizzato dal disegno orizzontale di semplici cornicioni, ordinati riquadri incassati dove sono le finestre e dallo scalettamento dei piani da 7 a 2, per migliorare l’insolazione del piccolo cortile e aggiungere ampi terrazzi agli alloggi.
Tre isolati al Quartiere Flaminio, piazza Perin del Vaga, ICP, 1925-27, T. Brener, De Renzi, A. Limongelli, G. Wittich; tre isolati con al centro una piazzetta pubblica, alloggi con balconi, piani terra residenziali, stile barocchetto romano e  spazialità urbana.
Unico il Villaggio della rivoluzione fascista, via Irma Bandiera, Bologna, 1936-38, IFACP, Francesco Santini; intervento per l’Associazione caduto, mutilati e feriti della rivoluzione; un villaggio a bassa densità, ampio verde, impianto a villette bifamiliari e quattro edifici a 4 piani, asilo nido. Una scelta d’avanguardia per il fascismo di provincia. .Esempio di architettura il Quartiere alla Fontana, Via P. Bassi, MI, Soc. Case Operai, bagni lavatoi, 1927-30,  di  E. Griffini, G. Manfredi. Un intervento privato d’isolato per ampie case operaie con attrezzature disegnato con linguaggio novecentista.
Il Quartiere Vittorio Veneto, Via Sospello, Torino, IACP, 1928-30, arch. Umberto Cuzzi, Un unico intervento di case e servizi (botteghe, asilo, lavatoio, bagni, cappella, piscina), un unico edificio a greca di 18 segmenti che occupa un intero isolato con spazio centrale libero. Un linguaggio novecentista caratterizzato da larghe fasce marcapiano d’intonaco su muratura in mattoni.
Il primo quartiere decisamente razionalista il Quartiere Fabio Filzi, Milano, 1935-38, IFACP, è l’intervento più significativo di una nuova stagione delle case popolari: abbandono della tradizione e del Novecento, accettazione e diffusione del razionalismo europeo.
Il Quartiere Alfa Romeo, Pomigliano d’arco, Iri, 1938-40, è legato alla fabbrica omonima per aeroplani, per i dipendenti della fabbrica Alfa Romeo, disegno dell’arch. comasco A. Cairoli.  
Nella privata fabbrica Olivetti di Ivrea, a Cantonvesco, 1940-42, Figini e Pollini, disegnano case a schiera per impiegati che si completano con servizi alla residenza nell’area della fabbrica e asilo nido.

In questo periodo una sperimentazione di quartieri giardino si attua a Milano (Soc. cooperativa a Cusano Milanino), e soprattutto a Roma con interventi pubblici alla Garbatella e alla borgata giardino Aniene (G. Giovannoni), destinati a ceti medi impiegatizi. 
La scelta tipologica e morfologica degli Istituti è ancora oscillante tra tipologie a blocco con cortile, a schiera, a palazzine di 4 piani che vengono proposte anche tutte insieme per rispondere ad una domanda variegata della classe dei lavoratori. I nuovi interventi rispettano i piani regolatori, e si situano nelle previsioni d’espansione, risultando omogenei allo sviluppo della città.  
Oltre alle case pubbliche, lo Stato crea nuovi Enti come l’INCIS (1924 per ceti medi impiegatizi, e finanzia società cooperative soprattutto a Roma, dove si realizzano col concorso del pubblico (alloggi 1/3 al Comune, 2/3 al privato costruttore) grandi quantità di interventi.  
Negli anni trenta si affermano i primi tentativi, molto dibattuti fra tradizionalisti e modernisti, di quartieri razionalisti soprattutto a Milano con Albini, Palanti, Camus, Griffini, a Ivrea con interventi per impiegati Olivetti di Figini e Pollini.  
Sul piano politico col fascismo vengono esautorati i Comuni, accentrata la gestione degli Istituti a Roma nei Ministeri, aumentati i finanziamenti, ma solo per case riservate al pubblico impiego statale speciale (giustizia, polizia, corpi militari, etc), riducendo i servizi collettivi nei quartieri.  A Roma, ma anche a Torino l’Istituto si fa carico della sistemazione nelle borgate degli sfollati degli sventramenti.
Milano e Roma hanno espresso i maggiori punti di riferimento teorico: funzionalismo milanese e vernacolo provinciale romano/laziale su base classicista.
Durante il fascismo c’è stata una caratterizzazione estetica e/o restyling in stile eclettico degli edifici popolari, scelte   neo-classiche  o neo barocche,  fatte dagli ingegneri e dai funzionari ICP.  Poi la modernità si è espressa nella tecnica costruttiva del c.a. e nella nudità del  razionalismo, con una ricerca d’italianizzazione dei modelli europei. Salvo l’accezione di Milano, il razionalismo si espanderà nelle case popolari solo nel dopoguerra. Contribuiva all’espansione del razionalismo il cambio tecnologico della struttura resistente dell’edificio che da muratura portante diventava composta da travi , pilastri e tompagni e consentiva una libertà progettuale mai avuta.    


Social Housing e Periferie 4. Il secondo Novecento



Il boom della  stagione delle case popolari  dura meno di mezzo secolo, dalla Ricostruzione dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale alla Grande Dimensione negli anni settanta/ottanta. Un periodo di grande trasformazione   della nazione, che ha toccato tutti gli ambiti sociali e nel quale si è formata la periferia urbana. L’intervento pubblico  ha fatto grandi sforzi per dare una casa a tutti, ma non altrettanti per costruire la città che è stata invece gestita  male dalle forze economiche e politiche, dalle   grandi aziende  nazionali e dai Comuni.
Molti parlano di fallimento dell’intervento pubblico o addirittura di fallimento dell’architettura moderna che è stata la forma che ha assunto l’intervento pubblico residenziale sposando i concetti di  progresso, democrazia e architettura moderna. Purtroppo questo stereotipo dà  poco peso alla realtà fattuale della storia italiana e molta forza al mito costruito delle sorti magnifiche dell’architettura moderna.
Il disinteresse pubblico per la casa sociale e il lassismo comunale per le case private, sono state le due opposte pratiche che hanno segnato negativamente il carattere della nostra periferia. L’architettura non ha dato una mano al consolidamento culturale e pratico di una via italiana alla città moderna, segnata da un individualismo poco temperato .  Soprattutto c’è stata una certa  instabilità o eccessiva sperimentazione delle proposte architettoniche e urbanistiche,  mai stabilizzatesi sulle acquisizioni positive precedenti.

La periferia è ancora fatta di sole case, di quel bene primario che, insieme al lavoro, può decidere il destino di un uomo e di una famiglia; certo i cambiamenti della società che si riflettono sull’abitare sono incisivi, soprattutto le relazioni tra le persone stanno cambiando completamente.  Regredisce infatti il senso di comunità e la condizione formativa del lavoro, aumentano povertà e contraddizioni sociali dovute anche agli immigrati. 

Molte stagioni hanno caratterizzato la nostra periferia pubblica; la sua formazione non è un processo naturale né un artificio lineare: è lo specchio della nostra modernità che, per capirla meglio, potremmo schematizzare in tre periodi storici, prendendo in considerazione  le politiche e le leggi che l’hanno regolata e il rapporto con la città.
Una prima periferia pubblica, che va grossomodo dal 1900 al 1943, si presenta caratterizzata per lo più da un’aderenza morfologica,  attraverso la forma  dell’Isolato composto,  della città esistente  di cui essa vuole essere un ampliamento. L’architettura vive tre declinazioni:   un periodo di ricerca sulla casa operaia come modello tecnico-sociale con proposte di  edilizia funzionale, povera e salubre  che oscillava tra edifici a blocco ottocenteschi, palazzine di quattro piani, e villini plurifamiliari di una immaginaria garden city  inglese , durate fino alla nascita del fascismo;  una seconda declinazione eclettica ( neo medievale, neobarocca , neo classicista) che si afferma  durante il fascismo;  ed un ultima declinazione verso la fine del fascismo e soprattutto al Nord Italia,  in parziale adesione al linguaggio razionalista.
Una seconda periferia, databile circa dal 1949 al 1971, è caratterizzata da una scarsa  aderenza morfologica alla città esistente,  eliminazione dell’isolato e proposte alternative con   maggiore autonomia formale,  distacco  dalle precedenti e autonomia urbanistica; tutti interventi che avevano  un’aspirazione a creare parti nuove di città oltre i suoi confini, ma come  isole nel mare urbano.  Fino al 1950 l ’architettura attraversa una fase di forte ma breve  razionalismo, che cede il passo ai  quartieri organici e autonomi  dell’Ina-casa. Dal 1962 inizia un periodo  di previsione e razionalizzazione urbanistica comunale  in rapporto all’espansione delle città attraverso i nuovi piani 167 che,  beneficiando dell’esproprio pubblico dei suoli, prevedono amplissima  costruzione di edilizia pubblica e cooperativa, mentre gli interventi cooperativi avranno forte espansione in questo periodo,  quelli pubblici non saranno abbastanza rispetto alla crisi degli alloggi sociali.  
Una terza periferia, dal 1971 al 1985 circa, prende forma durante la crisi degli alloggi , in presenza di una forte richiesta sociale, le proposte si staccano  decisamente dalla città esistente e attraverso idee di habitat autonomi  vogliono  disegnare un paesaggio  che è altro dalla città esistente. L’emergenza sociale di case pubbliche acquista un forte peso  politico cui viene risposto con l’aumento della dimensione degli interventi e degli edifici con uso  di sistema prefabbricato; tutti  gestiti solo dagli ICP  locali.  Ora gli inquilini delle case pubbliche  non sono più lavoratori ma persone e famiglie disagiate (legge sulla casa, 1971). La cosa sorprendente è che questo cambiamento epocale non viene inteso né dagli Enti né dai progettisti; si continua cosi a proporre  quartieri pubblici come se contenessero una comunità di abitanti lavoratori ingigantendo gli edifici.
La data ufficiale della fine della edilizia pubblica  si può considerare il 1998 quando la competenza e i finanziamenti residui passano dallo Stato alle Regioni che, salvo qualche caso isolato come la Lombardia, non  promuovono  significativi  interventi


Social Housing e Periferie 5.Italia ed esempi europei



Lo stato attuale dell’arte vede crescenti difficoltà delle famiglie italiane nell’acquisto di una casa  oppure nel sostenere affitti di mercato. La domanda abitativa cresce e aumentano anziani, famiglie mononucleari, immigrati, che chiedono alloggi piccoli e a fitto sostenibile. Il disagio nelle periferie delle grandi città aumenta, sia per l’aumento della povertà  in generale, sia per mancanza di adeguati servizi, di trasporti , di spazio pubblico utilizzabile e dell’aumento dei costi energetici degli appartamenti.
Le iniziative di Social Housing hanno realizzato fino ad oggi circa 4500 alloggi e ne hanno in progetto circa 15/20.000. I costi medi di costruzione si aggirano sui 1000 euro /mq, e il costo affitto è circa 80euro/mq/anno, con costo vendita intorno alle 2000euro/mq.L’iter medio di un progetto di Social Housing è circa 2 anni e mezzo cui si aggiunge lo stesso tempo per la realizzazione. In Italia la divisione percentuale del patrimonio edilizio vede :  affitto sociale 5,5%; affitto libero 16%; proprietà 67%. 
L’Edilizia sociale privata chiama in causa almeno quattro dimensioni necessarie alla sua realizzazione e utilizzazione: 1. economico-finanziaria ( sistema integrato fondi, CDP, Società di gestione e risparmio); 2. urbanistica (mixitè funzionale) 3. architettonico-progettuale (concorsi di progettazione, Imprenditori); 4.sociale ( mixitè sociale, gestione socio-economica  dell’intervento )
Al S.H. vengono richieste  molte cose che lo Stato,  i Comuni , i piani regolatori e i privati non hanno saputo predisporre e fare nel passato. Molte di esse sono speranze e desideri.  In sintesi due obiettivi principali vengono posti:   mitigazione del disagio sociale ed una puntuale riqualificazione urbana in periferia.
In merito al  disagio sociale  c’è da dire che il S.H. non può fare molto sia in quanto il disagio  è molto diffuso  (parliamo di 5 milioni di persone ed è in costante aumento) e poi perché il S.H.  non si rivolge ai poveri,  ma a quei lavoratori  ( chiamati “ fascia grigia”) le cui famiglie  hanno un reddito  medio in grado di sostenere fitti almeno di 500 euro/mese per alloggi di 70 mq. Questo costo del fitto  è una media di redditività dell’investimento  in edilizia delle Fondazioni  bancarie che operano comunque nel mercato in quanto gli investimenti sono soprattutto di capitali privati. Abbassare il rendimento dell’investimento, ovvero abbassare i fitti  significa ipotecare la sua realizzabilità. L’incidenza geografica del S.H. è inoltre limitata al Nord del paese, incidono sia realtà sociali diversificate, sia fattori economici e culturali che riguardano gli  investitori e anche i  politici che amministrano i comuni e regioni. Sono, infatti, interessati fino ad oggi soprattutto comuni del Nord come Milano, Torino, Bolzano, Cremona, Parma, etc.
In merito alla riqualificazione delle periferie il S.H. può incidere poco ma molto utilmente. La sua incidenza dipende essenzialmente dalla capacità di collaborazione tra Comuni e Investitori e dalle scelte urbanistiche dei Comuni stessi: scelta di aree  significative magari entro una cornice urbanistica  già delineata , oppure su edifici non utilizzati  e da recuperare, tenendo presente la necessità delle periferie di spazio pubblico e di trasporti; si possono migliorare  i grandi vuoti degli interventi pubblici che hanno spazi  liberi fuori dimensione,  oppure  riempire i vuoti urbani lasciati dalla de-industrializzazione, dalla  demolizioni di fabbriche, o altro.
La pochezza dei numeri e la concentrazione solo al Nord degli interventi di Edilizia privata non possono certo affrontare i compiti che la retorica politica dei precedenti governi le ha assegnato. Certamente è necessaria una diversa politica di contributi statali, di semplificazione burocratica, e soprattutto di maggiore coinvolgimento dei privati investitori dei risparmi. Ma attualmente nulla è previsto.

Una rapida panoramica del Social Housing europeo mostra grandi differenze. In Olanda e Danimarca vige il sistema Universalistico, del tipo un’abitazione a tutti, mentre in Germania, Austria, Francia, Italia, vige il sistema generalista Targeted (indirizzato) Generalista, con assegnazione di alloggi su base reddituale; in Gran Bretagna, Francia e Germania, vige anche il sistema Residuale, con alloggi a categorie disagiate.
Due esempi europei: Solar city e ParkHill

1.    In Austria politiche abitative sono orientate prevalentemente all’offerta di unità    abitative o di sussidi all’abitazione. La residenza sociale è costituita da alloggi           pubblici in locazione forniti dai singoli comuni e da alloggi in locazione e/o vendita,  riconducibili a investitori privati, in conformità a operazioni no-profit sussidiate dal  settore pubblico (Limited profit housing).  Il  patrimonio edilizio è diviso in: Affitto sociale 20%; affitto libero 28%; proprietà 52%;


      Solar city, Linz, Austria; qui l’intervento ex novo su suolo comunale, è una città giardino, dotata di lago balneabile e collegata alla città madre da metro. L’intervento prevede alloggi a buon mercato, alloggi a basso prezzo, e alloggi in fitto. Il finanziamento è europeo e Comunale, e i lavori sono fatti da Imprese “a basso guadagno”.

2     Nel Regno Unito l’Housing sociale è in larga parte gestito delle autorità pubbliche e dalle associazioni per la casa. La spesa per l’abitazione è in media pari al 40% del reddito percepito. Di recente sono stati sospesi i contributi alle spese accessorie (utenze) previsti dal governo a fronte di un nuovo contributo unico (Universal) destinato a particolari categorie. E’ stata sperimentata una formula di alloggio sociale con ausilio all’acquisto: il locatario versa un acconto iniziale con il quale acquisisce quota parte dell’alloggio, i canoni di locazione successivi sono poi funzionali  all’acquisto residuale:
I dati percentuali vedono: affitto sociale18%; affitto libero 17%; proprietà 65%;

Renovation Park Hill, Sheffield Gran Bretagna; qui il mercato libero è sacro. A ParkHill il Comune non aveva i soldi per fare manutenzione straordinaria, l’edificio deperiva e perdeva abitabilità tanto che, dopo qualche anno le case si sono in parte liberate da sole, e in parte il Comune non ha rinnovato i contratti di fitto scaduti. Sotto il controllo dell’English Heritage (Soprintendenza Nazionale), il Comune bandisce una gara per Imprese, assegna l’appalto, termina i lavori. L’impresa è pagata anche con cessione di case e negozi dentro all’edificio in riqualificazione. Infine il comune, coadiuvato da una commissione sociale comunale, vende parte degli alloggi a buon prezzo, in parte li fitta ad assegnatari tra cui anche i vecchi inquilini,
Cfr. Social Housing in Italia, su   Urbanistica Tre on line n. 6, marzo 2015