Il boom della stagione delle case popolari dura meno di mezzo secolo, dalla Ricostruzione
dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale alla Grande Dimensione negli
anni settanta/ottanta. Un periodo di grande trasformazione della nazione, che ha toccato tutti gli
ambiti sociali e nel quale si è formata la periferia urbana. L’intervento
pubblico ha fatto grandi sforzi per dare
una casa a tutti, ma non altrettanti per costruire la città che è stata invece
gestita male dalle forze economiche e
politiche, dalle grandi aziende nazionali e dai Comuni.
Molti parlano di fallimento dell’intervento
pubblico o addirittura di fallimento dell’architettura moderna che è stata la
forma che ha assunto l’intervento pubblico residenziale sposando i concetti
di progresso, democrazia e architettura
moderna. Purtroppo questo stereotipo dà
poco peso alla realtà fattuale della storia italiana e molta forza al
mito costruito delle sorti magnifiche dell’architettura moderna.
Il disinteresse pubblico per la casa sociale e
il lassismo comunale per le case private, sono state le due opposte pratiche
che hanno segnato negativamente il carattere della nostra periferia. L’architettura
non ha dato una mano al consolidamento culturale e pratico di una via italiana
alla città moderna, segnata da un individualismo poco temperato . Soprattutto c’è stata una certa instabilità o eccessiva sperimentazione delle
proposte architettoniche e urbanistiche, mai stabilizzatesi sulle acquisizioni positive
precedenti.
La periferia è ancora fatta di sole case, di
quel bene primario che, insieme al lavoro, può decidere il destino di un uomo e
di una famiglia; certo i cambiamenti della società che si riflettono
sull’abitare sono incisivi, soprattutto le relazioni tra le persone stanno
cambiando completamente. Regredisce
infatti il senso di comunità e la condizione formativa del lavoro, aumentano
povertà e contraddizioni sociali dovute anche agli immigrati.
Molte stagioni hanno caratterizzato la nostra
periferia pubblica; la sua formazione non è un processo naturale né un
artificio lineare: è lo specchio della nostra modernità che, per capirla
meglio, potremmo schematizzare in tre periodi storici, prendendo in
considerazione le politiche e le leggi
che l’hanno regolata e il rapporto con la città.
Una prima
periferia pubblica, che va
grossomodo dal 1900 al 1943, si presenta caratterizzata per lo più da
un’aderenza morfologica, attraverso la
forma dell’Isolato composto, della città esistente di cui essa vuole essere un ampliamento.
L’architettura vive tre declinazioni:
un periodo di ricerca sulla casa operaia come modello tecnico-sociale con
proposte di edilizia funzionale, povera
e salubre che oscillava tra edifici a
blocco ottocenteschi, palazzine di quattro piani, e villini plurifamiliari di
una immaginaria garden city inglese , durate
fino alla nascita del fascismo; una seconda declinazione eclettica ( neo
medievale, neobarocca , neo classicista) che si afferma durante il fascismo; ed un ultima declinazione verso la fine del
fascismo e soprattutto al Nord Italia, in parziale adesione al linguaggio
razionalista.
Una seconda
periferia, databile circa dal 1949
al 1971, è caratterizzata da una scarsa aderenza
morfologica alla città esistente, eliminazione
dell’isolato e proposte alternative con maggiore autonomia formale, distacco dalle precedenti e autonomia urbanistica; tutti
interventi che avevano un’aspirazione a
creare parti nuove di città oltre i suoi confini, ma come isole nel mare urbano. Fino al 1950 l ’architettura attraversa una
fase di forte ma breve razionalismo, che
cede il passo ai quartieri organici e
autonomi dell’Ina-casa. Dal 1962 inizia
un periodo di previsione e
razionalizzazione urbanistica comunale in
rapporto all’espansione delle città attraverso i nuovi piani 167 che, beneficiando dell’esproprio pubblico dei
suoli, prevedono amplissima costruzione
di edilizia pubblica e cooperativa, mentre gli interventi cooperativi avranno
forte espansione in questo periodo, quelli pubblici non saranno abbastanza
rispetto alla crisi degli alloggi sociali.
Una terza
periferia, dal 1971 al 1985 circa,
prende forma durante la crisi degli alloggi , in presenza di una forte
richiesta sociale, le proposte si staccano decisamente dalla città esistente e attraverso
idee di habitat autonomi vogliono disegnare un paesaggio che è altro dalla città esistente. L’emergenza
sociale di case pubbliche acquista un forte peso politico cui viene risposto con l’aumento
della dimensione degli interventi e degli edifici con uso di sistema prefabbricato; tutti gestiti solo dagli ICP locali. Ora gli inquilini delle case pubbliche non sono più lavoratori ma persone e famiglie
disagiate (legge sulla casa, 1971). La cosa sorprendente è che questo
cambiamento epocale non viene inteso né dagli Enti né dai progettisti; si
continua cosi a proporre quartieri
pubblici come se contenessero una comunità di abitanti lavoratori ingigantendo
gli edifici.
La data ufficiale della fine della edilizia
pubblica si può considerare il 1998
quando la competenza e i finanziamenti residui passano dallo Stato alle Regioni
che, salvo qualche caso isolato come la Lombardia, non promuovono
significativi interventi
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