venerdì 25 gennaio 2019

Social Housing e Periferie 4. Il secondo Novecento



Il boom della  stagione delle case popolari  dura meno di mezzo secolo, dalla Ricostruzione dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale alla Grande Dimensione negli anni settanta/ottanta. Un periodo di grande trasformazione   della nazione, che ha toccato tutti gli ambiti sociali e nel quale si è formata la periferia urbana. L’intervento pubblico  ha fatto grandi sforzi per dare una casa a tutti, ma non altrettanti per costruire la città che è stata invece gestita  male dalle forze economiche e politiche, dalle   grandi aziende  nazionali e dai Comuni.
Molti parlano di fallimento dell’intervento pubblico o addirittura di fallimento dell’architettura moderna che è stata la forma che ha assunto l’intervento pubblico residenziale sposando i concetti di  progresso, democrazia e architettura moderna. Purtroppo questo stereotipo dà  poco peso alla realtà fattuale della storia italiana e molta forza al mito costruito delle sorti magnifiche dell’architettura moderna.
Il disinteresse pubblico per la casa sociale e il lassismo comunale per le case private, sono state le due opposte pratiche che hanno segnato negativamente il carattere della nostra periferia. L’architettura non ha dato una mano al consolidamento culturale e pratico di una via italiana alla città moderna, segnata da un individualismo poco temperato .  Soprattutto c’è stata una certa  instabilità o eccessiva sperimentazione delle proposte architettoniche e urbanistiche,  mai stabilizzatesi sulle acquisizioni positive precedenti.

La periferia è ancora fatta di sole case, di quel bene primario che, insieme al lavoro, può decidere il destino di un uomo e di una famiglia; certo i cambiamenti della società che si riflettono sull’abitare sono incisivi, soprattutto le relazioni tra le persone stanno cambiando completamente.  Regredisce infatti il senso di comunità e la condizione formativa del lavoro, aumentano povertà e contraddizioni sociali dovute anche agli immigrati. 

Molte stagioni hanno caratterizzato la nostra periferia pubblica; la sua formazione non è un processo naturale né un artificio lineare: è lo specchio della nostra modernità che, per capirla meglio, potremmo schematizzare in tre periodi storici, prendendo in considerazione  le politiche e le leggi che l’hanno regolata e il rapporto con la città.
Una prima periferia pubblica, che va grossomodo dal 1900 al 1943, si presenta caratterizzata per lo più da un’aderenza morfologica,  attraverso la forma  dell’Isolato composto,  della città esistente  di cui essa vuole essere un ampliamento. L’architettura vive tre declinazioni:   un periodo di ricerca sulla casa operaia come modello tecnico-sociale con proposte di  edilizia funzionale, povera e salubre  che oscillava tra edifici a blocco ottocenteschi, palazzine di quattro piani, e villini plurifamiliari di una immaginaria garden city  inglese , durate fino alla nascita del fascismo;  una seconda declinazione eclettica ( neo medievale, neobarocca , neo classicista) che si afferma  durante il fascismo;  ed un ultima declinazione verso la fine del fascismo e soprattutto al Nord Italia,  in parziale adesione al linguaggio razionalista.
Una seconda periferia, databile circa dal 1949 al 1971, è caratterizzata da una scarsa  aderenza morfologica alla città esistente,  eliminazione dell’isolato e proposte alternative con   maggiore autonomia formale,  distacco  dalle precedenti e autonomia urbanistica; tutti interventi che avevano  un’aspirazione a creare parti nuove di città oltre i suoi confini, ma come  isole nel mare urbano.  Fino al 1950 l ’architettura attraversa una fase di forte ma breve  razionalismo, che cede il passo ai  quartieri organici e autonomi  dell’Ina-casa. Dal 1962 inizia un periodo  di previsione e razionalizzazione urbanistica comunale  in rapporto all’espansione delle città attraverso i nuovi piani 167 che,  beneficiando dell’esproprio pubblico dei suoli, prevedono amplissima  costruzione di edilizia pubblica e cooperativa, mentre gli interventi cooperativi avranno forte espansione in questo periodo,  quelli pubblici non saranno abbastanza rispetto alla crisi degli alloggi sociali.  
Una terza periferia, dal 1971 al 1985 circa, prende forma durante la crisi degli alloggi , in presenza di una forte richiesta sociale, le proposte si staccano  decisamente dalla città esistente e attraverso idee di habitat autonomi  vogliono  disegnare un paesaggio  che è altro dalla città esistente. L’emergenza sociale di case pubbliche acquista un forte peso  politico cui viene risposto con l’aumento della dimensione degli interventi e degli edifici con uso  di sistema prefabbricato; tutti  gestiti solo dagli ICP  locali.  Ora gli inquilini delle case pubbliche  non sono più lavoratori ma persone e famiglie disagiate (legge sulla casa, 1971). La cosa sorprendente è che questo cambiamento epocale non viene inteso né dagli Enti né dai progettisti; si continua cosi a proporre  quartieri pubblici come se contenessero una comunità di abitanti lavoratori ingigantendo gli edifici.
La data ufficiale della fine della edilizia pubblica  si può considerare il 1998 quando la competenza e i finanziamenti residui passano dallo Stato alle Regioni che, salvo qualche caso isolato come la Lombardia, non  promuovono  significativi  interventi


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