venerdì 16 marzo 2018

La stagione delle case popolari a Napoli (presentazione ANIAI, Napoli, 2018)

Sergio Stenti

Uno sguardo  riflessivo sull’oggi, ormai  molto lontano dalle foto d’epoca sui libri , serve a mettere insieme gli elementi di una stagione dell’architettura moderna, della nascita della periferia e dei quartieri pubblici. Conviene però sgombrare subito il campo dal giudizio generale di fallimento che viene spesso dato di essi. Non sono fallimentari i quartieri che funzionano male o malissimo; infatti, salvo che non siano decrepiti, possono essere sempre rinnovati bene.  Non condivido  quindi etichettare quartieri vivi che mostrano molte ferite e  gravi mancanze come fallimenti. Com’è noto, i quartieri sono fatti soprattutto dagli abitanti che sono poi gli attori della vita che vi si svolge; i progettisti, le imprese e i committenti pubblici stanno dietro la scena, non sul proscenio. I quartieri che non funzionano si possono aggiustare, rinnovare, trasformare, salvo gli edifici perduti perché demoliti: e solo questi sono da considerarsi fallimenti che il secolo scorso ha prodotto, per la verità, in pochi casi. Pochi fallimenti, molti quartieri che non funzionano e pochi quartieri di successo  costituiscono l’eredità del XX secolo di cui  dobbiamo farci carico perché  è quella la nostra stagione. L’ideologia che ha guidato la cultura europea dopo le due guerre è stata quella di dare una casa a tutti, una casa in un quartiere  che l’Ina-casa ha realizzato  proponendo in fondo  il modello del  quartiere italiano del novecento basato sul valore del lavoro come aggregante. E’ mancato ai quartieri successivi
 l’attenzione all’abitare bene. Il dato quantitativo sul numero di alloggi realizzati è stato l’unico traguardo raggiunto, ma la vita del quartiere è stata completamente ignorata. L’ingresso dell’architettura nell’edilizia, avvenuto negli anni venti del secolo scorso, ha portato agli edifici degli ingegneri sanitari, nudi o decorati che fossero, molti sogni e utopie; sono nate ideologie moderne sull’abitare insieme che hanno prodotto sicuramente più benefici che negatività.
Il miglioramento dell’alloggio soprattutto è stato il cavallo di battaglia dell’innovazione moderna, cui si è aggiunto il verde come elemento indispensabile del vivere urbano. La debolezza dei progetti si è però mostrata per intero quando gli architetti, presi dall’innovazione, hanno trascurato il rapporto che legava architettura e sociologia a vantaggio di quello tra architettura e arti figurative, e poi anche tra architettura e contesto: erano progettisti innovatori , ma per abitanti quasi sconosciuti.
E’ sintomatico che tutti quei quartieri dove i progettisti conoscevano invece le abitudini dei  futuri abitanti, al di la di una più o meno propagandata partecipazione collettiva , siano ancora oggi, dopo mezzo secolo, esempi positivi e di successo di un abitare periferico. Mi riferisco, oltre agli interventi Ina-casa, a quartieri come Ceca a Piombino, Olivetti a Pozzuoli, Matteotti a Terni, Enel a Tarquinia, Decima a Roma. Quella stagione pubblica di case sociali è finita. Lo Stato non ritiene più di dover fornire case a fitti bassi ai poveri in cerca di alloggio e purtroppo non ritiene nemmeno di riqualificare il grande patrimonio pubblico che ancora possiede.  L’Edilizia privata sociale, inventata dal governo Berlusconi nel 2009, non riesce a produrre che pochi alloggi e per di più solo al Nord. Al Sud invece, dove la povertà è maggiore e cosi il bisogno di case sociali, il Social Housing non ha avviato nessuna iniziativa: segno di un totale disinteresse o una sfiducia del capitale privato del mezzogiorno ad investire in case sociali.
A Napoli oggi gli alloggi pubblici sono moltissimi, circa 50.000, tra cui nessun alloggio per ceti medi. Gli alloggi sono gestiti per metà dallo IACP e metà dal Comune che vorrebbe volentieri disfarsene magari anche regalandoli perché quegli alloggi sono per lui  solo grattacapi  al limite della legalità , e rappresentano una  perdita netta di soldi che non è ripianata  dai fitti che il Comune non  riesce ad incassare. Un groviglio di leggi e di pessime abitudini gestionali ha reso  le case pubbliche un patrimonio  anti economico, e quindi malsano, degradato e con fenomeni di  illegalità, soprusi  e delinquenza che sono diventati uno stigma  per i quartieri pubblici. 
Alcuni giorni fa la Banca d’Italia ha reso pubbliche le sue indagini sulla povertà italiana (2018). Queste ricerche confermano un evidente dato sul ruolo della casa: coloro che non hanno casa , e sono il 23% in Italia ,  sono anche coloro che sono poveri tendenziali ( meno di 800 euro/mese a persona) e di questi il  40% abita al Sud  e massimamente vive nelle case pubbliche.
La politica sociale dello Stato è stata sempre di tipo emergenziale, precaria e a tempo, salvo i quattordici anni del periodo Ina-Casa. Non è stata solo occasionale ma anche fluttuante nelle regole gestionali e negli obiettivi. Nel 1910 le case sociali, soprattutto pagate dai privati, vengono  dirette ad artigiani e lavoratori poveri con reddito. Nel 1930, l'intervento diretto dello Stato fascista cambia obiettivo e produce soprattutto case per ceti medi impiegatizi. Nel 1950, dopo la guerra, le case, pagate dai lavoratori e dalle aziende, vengono date  ai lavoratori  stessi, mentre nel 1960 si aprono  gli usci alle famiglie senza casa, vittime delle distruzioni belliche. Nel 1970 una velleitaria riforma del centrosinistra assegna le case ai bisognosi con disagio sociale che certo possiedono scarso reddito. Fino alla stagione dell’Ina-casa e della Gescal la casa popolare è stata sempre riscattata dagli abitanti. La successiva stagione, caratterizzata da grande quantità, grande dimensione e da costruzioni in prefabbricato, ha  assegnato le case  ai senza reddito , producendo   una situazione di  difficilissima gestione, inevitabile assenza di manutenzione,  alta morosità anche rispetto a fitti molto bassi, tolleranza delle illegalità e  insicurezza sociale che, non gestita,  continua  ancora oggi.
A Napoli circa 60.000 alloggi pubblici degli 80.000 realizzati dal 1908 al 1990 sono diventati di proprietà privata. Dai quartieri degli anni settanta, la demagogica legge del 1971, ha creato enormi difficoltà al formarsi di comunità locali, ormai completamente disomogenee, e gli Enti di gestione, lungi dal diventare Enti economici, sono stati di fatto trasformati in Enti assistenziali.  L’ingresso delle Regioni, dopo il 1998, cui è stata data la competenza in materia, ha dato il colpo di grazia definitivo alla già cattiva politica sociale nazionale. Degli 11,5 miliardi di euro che rimasero dei contributi dei lavoratori  nelle casse della Ina-casa/Gescal, dopo la loro  soppressione, la maggior parte fu data alle Regioni e parte  la riprese lo Stato. Ma le Regioni, salvo alcune al Nord, non spesero quei soldi in edilizia sociale,  ma in altri investimenti tradendo cosi  il  mandato politico ricevuto.
Dopo il 1998 non è stato possibile nemmeno immaginare un intervento dei privati per rinnovare il patrimonio pubblico; una possibilità impedita dal groviglio legislativo e consuetudinario che gravava sulla casa, e che le Regioni, come staterelli separati, aggravarono di ulteriori e diverse leggi regionali. Per esempio il non rispetto dei contratti di assegnazione e la morosità degli abitanti (circa la metà degli assegnatari non paga il fitto di circa 50 euro/mese) hanno vanificato ogni mobilità negli alloggi pubblici che ha reso l’alloggio  assegnato a vita, come  dato in usufrutto privilegiato,  dove non sono previste le spese per il mantenimento dell’immobile  e che addirittura viene ceduto per eredità  alla figliolanza.  Sulle case popolari si sono cosi saldate strettamente le tre componenti principali dell’arretratezza del Sud Italia: familismo, criminalità ed inefficienza.
Mettendo insieme un secolo di quartieri popolari ciò che emerge non è tanto la differenza stilistica dei progetti, che pure fa la differenza, ma emerge soprattutto come decisiva la qualità degli abitanti e l’efficienza della gestione. L’architettura sociale, priva di dettagli architettonici, si distingue soprattutto per l’impianto rispetto al contesto, per la qualità dell’alloggio e per la efficienza  costruttiva,  e assai poco per lo stile che ha occupato invece un secolo di dibattiti su riviste di architettura e libri di storia.
Cambiare i Gestori, magari con ingresso di privati, potrebbe essere una mossa positiva per togliere le incrostazioni e le illegalità stabilizzate e riportare in parità il bilancio.  Ma senza  la partecipazione degli abitanti al rinnovo dei loro quartieri,  la gestione non produrrà grandi cambiamenti. Oltre all’importante presenza del volontariato, assai diffuso al Nord, la partecipazione ha bisogno d’incentivi come qualsiasi altra innovazione tecnico/sociale; non si può aspettare che essa nasca da sola, per virtù etica.  Già nel secondo settennio Ina-Casa i tecnici avevano previsto e iniziato a costruire nei nuovi quartieri, insieme con altri servizi, l’edificio per l’assistenza sociale, come si può ancora trovare oggi all’Ina-Secondigliano.  Era una novità importante ed utile per gli abitanti coi loro problemi quotidiani da risolvere,  e  che andrebbe ripresa anche oggi, soprattutto dopo la perdita di influenza  sociale  del lavoro  collettivo  come legame tra gli abitanti. Come insegnano anche esempi inglesi (Park Hill a Sheffild per esempio ), per far fronte alla scarsità di mezzi finanziari  pubblici,  si dovrebbe anche provare ad interessare al rinnovo dei quartieri pubblici le  imprese private, in sinergia e col controllo pubblico.
Il rinnovo ormai è una questione trans-disciplinare, e il sapere degli architetti non è più sufficiente; servono tante discipline e mestieri diversi, per cui gli architetti da soli non bastano più. Ma serve soprattutto la partecipazione degli abitanti per attivare processi di cambiamento orientato.
I quartieri sono cose vive, non immobili come le foto sui libri che li ritraggono al loro nascere; essi si trasformano e si modificano autonomamente, per naturale aumento dell’entropia, senza bisogno di guida o di controllo.

Certo essi si valutano per funzioni; non quelle fisiche, ma quelle umane, e assai poco si valutano per artificio di forma o di bellezza, Non credo che interessi a molti un quartiere bello. Interessa invece a tutti un quartiere dove si abita bene e se lì si trova anche del bello che dura , certamente il vivere comune si arricchisce.


proiezione  video e dibattito,   sede ANIAI, Napoli 14 marzo 2018 : 
Sergio Stenti, La stagione delle case popolari a Napoli, un secolo di interventi pubblici in periferia,  video+paper,  CLEAN, Napoli, 2017)

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