Sergio Stenti
Uno
sguardo riflessivo sull’oggi, ormai molto lontano dalle foto d’epoca sui libri ,
serve a mettere insieme gli elementi di una stagione dell’architettura moderna,
della nascita della periferia e dei quartieri pubblici. Conviene però sgombrare
subito il campo dal giudizio generale di fallimento che viene spesso dato di
essi. Non sono fallimentari i quartieri che funzionano male o malissimo;
infatti, salvo che non siano decrepiti, possono essere sempre rinnovati
bene. Non condivido quindi etichettare quartieri vivi che mostrano
molte ferite e gravi mancanze come
fallimenti. Com’è noto, i quartieri sono fatti soprattutto dagli abitanti che
sono poi gli attori della vita che vi si svolge; i progettisti, le imprese e i
committenti pubblici stanno dietro la scena, non sul proscenio. I quartieri che
non funzionano si possono aggiustare, rinnovare, trasformare, salvo gli edifici
perduti perché demoliti: e solo questi sono da considerarsi fallimenti che il
secolo scorso ha prodotto, per la verità, in pochi casi. Pochi fallimenti,
molti quartieri che non funzionano e pochi quartieri di successo costituiscono l’eredità del XX secolo di cui dobbiamo farci carico perché è quella la nostra stagione. L’ideologia che
ha guidato la cultura europea dopo le due guerre è stata quella di dare una
casa a tutti, una casa in un quartiere
che l’Ina-casa ha realizzato proponendo in fondo il modello del quartiere italiano del novecento basato sul valore
del lavoro come aggregante. E’ mancato ai quartieri successivi
l’attenzione all’abitare bene. Il dato
quantitativo sul numero di alloggi realizzati è stato l’unico traguardo
raggiunto, ma la vita del quartiere è stata completamente ignorata. L’ingresso
dell’architettura nell’edilizia, avvenuto negli anni venti del secolo scorso,
ha portato agli edifici degli ingegneri sanitari, nudi o decorati che fossero,
molti sogni e utopie; sono nate ideologie moderne sull’abitare insieme che
hanno prodotto sicuramente più benefici che negatività.
Il miglioramento dell’alloggio soprattutto è stato il cavallo
di battaglia dell’innovazione moderna, cui si è aggiunto il verde come elemento
indispensabile del vivere urbano. La debolezza dei progetti si è però mostrata
per intero quando gli architetti, presi dall’innovazione, hanno trascurato il
rapporto che legava architettura e sociologia a vantaggio di quello tra
architettura e arti figurative, e poi anche tra architettura e contesto: erano
progettisti innovatori , ma per abitanti quasi sconosciuti.
E’ sintomatico che tutti quei quartieri dove i progettisti
conoscevano invece le abitudini dei
futuri abitanti, al di la di una più o meno propagandata partecipazione
collettiva , siano ancora oggi, dopo mezzo secolo, esempi positivi e di
successo di un abitare periferico. Mi riferisco, oltre agli interventi
Ina-casa, a quartieri come Ceca a Piombino, Olivetti a Pozzuoli, Matteotti a
Terni, Enel a Tarquinia, Decima a Roma. Quella stagione pubblica di case
sociali è finita. Lo Stato non ritiene più di dover fornire case a fitti bassi
ai poveri in cerca di alloggio e purtroppo non ritiene nemmeno di riqualificare
il grande patrimonio pubblico che ancora possiede. L’Edilizia privata sociale, inventata dal
governo Berlusconi nel 2009, non riesce a produrre che pochi alloggi e per di
più solo al Nord. Al Sud invece, dove la povertà è maggiore e cosi il bisogno
di case sociali, il Social Housing non ha avviato nessuna iniziativa: segno di
un totale disinteresse o una sfiducia del capitale privato del mezzogiorno ad
investire in case sociali.
A Napoli oggi gli alloggi pubblici sono moltissimi, circa
50.000, tra cui nessun alloggio per ceti medi. Gli alloggi sono gestiti per
metà dallo IACP e metà dal Comune che vorrebbe volentieri disfarsene magari
anche regalandoli perché quegli alloggi sono per lui solo grattacapi al limite della legalità , e rappresentano
una perdita netta di soldi che non è
ripianata dai fitti che il Comune
non riesce ad incassare. Un groviglio di
leggi e di pessime abitudini gestionali ha reso
le case pubbliche un patrimonio
anti economico, e quindi malsano, degradato e con fenomeni di illegalità, soprusi e delinquenza che sono diventati uno
stigma per i quartieri pubblici.
Alcuni giorni fa la Banca d’Italia ha reso pubbliche le sue
indagini sulla povertà italiana (2018). Queste ricerche confermano un evidente
dato sul ruolo della casa: coloro che non hanno casa , e sono il 23% in Italia
, sono anche coloro che sono poveri
tendenziali ( meno di 800 euro/mese a persona) e di questi il 40% abita al Sud e massimamente vive nelle case pubbliche.
La politica sociale dello Stato è stata sempre di tipo
emergenziale, precaria e a tempo, salvo i quattordici anni del periodo
Ina-Casa. Non è stata solo occasionale ma anche fluttuante nelle regole
gestionali e negli obiettivi. Nel 1910 le case sociali, soprattutto pagate dai
privati, vengono dirette ad artigiani e
lavoratori poveri con reddito. Nel 1930, l'intervento diretto dello Stato
fascista cambia obiettivo e produce soprattutto case per ceti medi impiegatizi.
Nel 1950, dopo la guerra, le case, pagate dai lavoratori e dalle aziende, vengono
date ai lavoratori stessi, mentre nel 1960 si aprono gli usci alle famiglie senza casa, vittime
delle distruzioni belliche. Nel 1970 una velleitaria riforma del centrosinistra
assegna le case ai bisognosi con disagio sociale che certo possiedono scarso
reddito. Fino alla stagione dell’Ina-casa e della Gescal la casa popolare è
stata sempre riscattata dagli abitanti. La successiva stagione, caratterizzata
da grande quantità, grande dimensione e da costruzioni in prefabbricato, ha assegnato le case ai senza reddito , producendo una situazione di difficilissima gestione, inevitabile assenza
di manutenzione, alta morosità anche
rispetto a fitti molto bassi, tolleranza delle illegalità e insicurezza sociale che, non gestita, continua
ancora oggi.
A Napoli circa 60.000 alloggi pubblici degli 80.000
realizzati dal 1908 al 1990 sono diventati di proprietà privata. Dai quartieri
degli anni settanta, la demagogica legge del 1971, ha creato enormi difficoltà
al formarsi di comunità locali, ormai completamente disomogenee, e gli Enti di
gestione, lungi dal diventare Enti economici, sono stati di fatto trasformati
in Enti assistenziali. L’ingresso delle
Regioni, dopo il 1998, cui è stata data la competenza in materia, ha dato il
colpo di grazia definitivo alla già cattiva politica sociale nazionale. Degli 11,5
miliardi di euro che rimasero dei contributi dei lavoratori nelle casse della Ina-casa/Gescal, dopo la
loro soppressione, la maggior parte fu
data alle Regioni e parte la riprese lo
Stato. Ma le Regioni, salvo alcune al Nord, non spesero quei soldi in edilizia
sociale, ma in altri investimenti tradendo
cosi il
mandato politico ricevuto.
Dopo il 1998 non è stato possibile nemmeno immaginare un
intervento dei privati per rinnovare il patrimonio pubblico; una possibilità impedita
dal groviglio legislativo e consuetudinario che gravava sulla casa, e che le
Regioni, come staterelli separati, aggravarono di ulteriori e diverse leggi
regionali. Per esempio il non rispetto dei contratti di assegnazione e la
morosità degli abitanti (circa la metà degli assegnatari non paga il fitto di
circa 50 euro/mese) hanno vanificato ogni mobilità negli alloggi pubblici che
ha reso l’alloggio assegnato a vita,
come dato in usufrutto privilegiato, dove non sono previste le spese per il
mantenimento dell’immobile e che
addirittura viene ceduto per eredità
alla figliolanza. Sulle case
popolari si sono cosi saldate strettamente le tre componenti principali
dell’arretratezza del Sud Italia: familismo, criminalità ed inefficienza.
Mettendo insieme un secolo di quartieri popolari ciò che
emerge non è tanto la differenza stilistica dei progetti, che pure fa la
differenza, ma emerge soprattutto come decisiva la qualità degli abitanti e
l’efficienza della gestione. L’architettura sociale, priva di dettagli
architettonici, si distingue soprattutto per l’impianto rispetto al contesto,
per la qualità dell’alloggio e per la efficienza costruttiva,
e assai poco per lo stile che ha occupato invece un secolo di dibattiti
su riviste di architettura e libri di storia.
Cambiare i Gestori,
magari con ingresso di privati, potrebbe essere una mossa positiva per togliere
le incrostazioni e le illegalità stabilizzate e riportare in parità il
bilancio. Ma senza la partecipazione degli abitanti al rinnovo
dei loro quartieri, la gestione non
produrrà grandi cambiamenti. Oltre all’importante presenza del volontariato, assai
diffuso al Nord, la partecipazione ha bisogno d’incentivi come qualsiasi altra
innovazione tecnico/sociale; non si può aspettare che essa nasca da sola, per
virtù etica. Già nel secondo settennio
Ina-Casa i tecnici avevano previsto e iniziato a costruire nei nuovi quartieri,
insieme con altri servizi, l’edificio per l’assistenza sociale, come si può
ancora trovare oggi all’Ina-Secondigliano.
Era una novità importante ed utile per gli abitanti coi loro problemi
quotidiani da risolvere, e che andrebbe ripresa anche oggi, soprattutto
dopo la perdita di influenza sociale del lavoro collettivo come legame tra gli abitanti. Come insegnano
anche esempi inglesi (Park Hill a Sheffild per esempio ), per far fronte alla
scarsità di mezzi finanziari
pubblici, si dovrebbe anche
provare ad interessare al rinnovo dei quartieri pubblici le imprese private, in sinergia e col controllo
pubblico.
Il rinnovo
ormai è una questione trans-disciplinare, e il sapere degli architetti non è
più sufficiente; servono tante discipline e mestieri diversi, per cui gli architetti
da soli non bastano più. Ma serve soprattutto la partecipazione degli abitanti
per attivare processi di cambiamento orientato.
I quartieri
sono cose vive, non immobili come le foto sui libri che li ritraggono al loro
nascere; essi si trasformano e si modificano autonomamente, per naturale
aumento dell’entropia, senza bisogno di guida o di controllo.
Certo essi
si valutano per funzioni; non quelle fisiche, ma quelle umane, e assai poco si
valutano per artificio di forma o di bellezza, Non credo che interessi a molti
un quartiere bello. Interessa invece a tutti un quartiere dove si abita bene e
se lì si trova anche del bello che dura , certamente il vivere comune si
arricchisce.
proiezione video e dibattito, sede ANIAI, Napoli 14 marzo 2018 :
Sergio Stenti, La stagione
delle case popolari a Napoli, un secolo di interventi pubblici in periferia, video+paper, CLEAN, Napoli, 2017)
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