venerdì 22 aprile 2022

LA STAGIONE DELLE CASE POPOLARI A NAPOLI

Sergio Stenti 

Nel Novecento sono stati costruiti a Napoli quasi 80.000 alloggi pubblici, di cui circa 50.000 ancora oggi di proprietà pubblica. Si tratta di una quantità non trascurabile, eppure tale quantità è poca cosa rispetto a quella privata o cooperativa, soprattutto perché gli interventi pubblici non sono stati pianificati e non sono stati adeguatamente sostenuti dai Comuni (scandalosa l’esperienza al rione Traiano a Napoli). Si deve aggiungere che ha giocato negativamente anche una certa incapacità o cattiva urbanistica, come per esempio a Secondigliano, che ha avuto effetti negativi sulla città; una mala-politica che, dopo il 1971, è stata indifferente alle modalità di assegnazione degli alloggi, e agli occupanti abusivi “per necessità”. In un secolo di storia, la città di Napoli è cambiata molto: trasporti pubblici e privati migliori e più diffusi, boom dell’automobile, molto cemento e poco verde e poco spazio pubblico efficiente; ed infine grandi interventi, come il Traiano, Monteruscello o Le Vele, che non hanno avuto, per disinteresse o incapacità, quel legittimo sostegno pubblico che avrebbero meritato. Il trasporto pubblico non ha unito la periferia alla città (manca ancora il completamento dell’anello metropolitano), anche a causa di una difficile costellazione a macchia d’olio e l’unica meritoria riqualificazione fatta è avvenuta nei casali storici delle periferie, sostenuta dal sindaco Maurizio Valenzi (un po’ come il sindaco del Rettifilo, Nicola Amore) a causa del terremoto del 1980.  Sui progettisti, architetti e ingegneri, c’è da dire che sono stati poco ricercatori e sperimentatori, salvo nel periodo 1945-50 e sempre quasi schiacciati nel loro lavoro, da una incolmabile emergenza abitativa.  Hanno preferito soluzioni “classiche” a innovazioni, e schivato fortunatamente le mode stilistiche. Mi pare che sia prevalsa più la ricerca urbanistica sul quartiere, sull’impianto, che l’architettura degli edifici, e nonostante questo, e salvo pochi casi, come La Loggetta o l’Ina- Secondigliano, i quartieri non hanno trainato in positivo la cattiva periferia realizzata intorno.  Poco interesse è stato espresso verso l’approfondimento del rapporto tra architettura e società, di cui ci sarebbe oggi ancora più necessità. Solo negli anni cinquanta le ricerche di Cosenza, ma non solo, hanno indagato e aggiornato la tradizione, seguite trent’anni dopo, dalla filosofia del recupero dei casali storici. Esempi di partecipazione popolare non sono mai stati incentivati, anzi, l’opposizione popolare agli espropri nella riqualificazione dei casali, per esempio, ha dimostrato notevoli conseguenze negative sul piano della ricostruzione sociale.

Se volessimo individuare che cosa è cambiato in un secolo di sperimentazioni, che cosa hanno imparato gli architetti, gli amministratori pubblici e lo Stato, non potremmo dare risposte facili e progressive. Se guardiamo alle opere e paragoniamo due quartieri come il Duca d’Aosta (4500 abitanti) e l’Ina-Secondigliano (10.000 abitanti), ci accorgiamo che il primo è una densa scacchiera di isolati senza verde interno, inserita pienamente nella struttura urbana di Fuorigrotta, mentre il secondo è un’isola omogenea, spaziosa e piena di verde, in una ostica periferia, lontana e poco collegata al centro città. L’abusivismo è assente nel primo quartiere abitato da discendenti d’impiegati dello stato, e molto contenuta (presenza di logge e piccole edificazioni nelle zone a verde privato) nel secondo, abitato da discendenti di lavoratori poveri. Nel caso del Duca d’Aosta quindi l’ordinato sviluppo di Fuorigrotta ha recuperato il quartiere dentro le sue maglie e le sue relazioni urbane, mentre ciò non è accaduto nel secondo caso, anzi l’Ina-Secondigliano mostra un’urbanità interna che fuori di esso non si è sviluppata per nulla. Si potrebbe sintetizzare che ad un iniziale adeguamento dell’intervento pubblico alla città dell’ottocento, fatto di isolati con edifici medio-bassi, con alloggi molto ridotti, si sia passati ad un graduale miglioramento dell’alloggio e ad un ingrandimento della dimensione degli interventi senza disegnare il contesto urbano della periferia.

Tra i tanti quartieri realizzati a Napoli, di pochi possiamo dire che sono un luogo per vivere dignitosamente e anche la lista di quelli d’autore che non hanno funzionato appare discretamente numerosa.  Possiamo citare il Cesare Battisti, dove gli abitanti hanno eliminato tutte le finestre a nastro e chiuso tutte le logge, il Mazzini stravolto in sede di costruzione per il raddoppio degli edifici previsti, le Vele, peggiorate in cantiere, incrementate di alloggi e vandalizzate dagli abitanti, il S. Giovanni a Teduccio modificato da un ingombrante scuola pubblica, le due stecche di Taverna del Ferro separate da una improbabile strada commerciale interna. Le ragioni del cattivo funzionamento spaziano da motivi storici a difetti urbanistici e architettonici, dal basso livello civile degli abitanti fino alla presenza d’infiltrazioni delinquenziali e la mancanza totale di manutenzione.

C’è una matassa ingarbugliata di ragioni per il cattivo funzionamento di molti quartieri pubblici, e le nuove politiche per l’abitazione, esaurito l’interesse pubblico con la fine della stagione delle case popolari, messe in campo dallo Stato e dalle Regioni, non hanno dato nessun risultato apprezzabile. L’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni ha contribuito infine a creare uno scontento popolare che sfora in più punti la dimensione democratica.

I quartieri che hanno funzionato meglio degli altri, che hanno cioè retto meglio al tempo e all’uso, si concentrano in due stagioni della periferia italiana: una prima, dal 1908 al 1943, nel periodo giolittiano e poi fascista, ed una seconda dal 1946 al 1971, durante la ricostruzione post-bellica, ed infine in quella del recupero dei casali dopo il terremoto (1983-1990).   

Le case popolari vivono a Napoli una breve stagione spontanea dopo la metà dell’Ottocento. Alla caduta del regno borbonico, durante quel nuovo fervore sulle condizioni insalubri della città bassa che era stato accelerato dai decreti garibaldini del 1860, tra i sostenitori del miglioramento delle classi lavoratrici si distinsero alcuni intellettuali come il banchiere Matteo Schilizzi e il politico e professore d’igiene Marino Turchi che proponevano al Comune, senza successo, interventi di miglioramento igienico-sanitario.  Marino Turchi, attraverso la fondazione dell’Associazione Filantropica Napoletana, utilizzando donazioni di suoli e finanziamenti privati, riuscì a realizzare nel 1868 una casa modello per circa 180 alloggi bi-esposizionali, posta in collina, sulla strada per Capodimonte. L’assegnazione alle famiglie di lavoratori era attenta e severa e richiedeva alcune condizioni di base: niente gioco d’azzardo, ubriachezza, molestia pubblica, niente debiti e figli tutti a scuola.

L’emiciclo di Corso Amedeo di Savoia è un intervento molto avanzato per l’epoca, efficiente, funzionale, e soprattutto sociale; un esempio di ciò che avrebbe potuto fare quel liberalismo illuminato se si fosse imposto politicamente a livello nazionale.

Nel 1885 la legge per il Risanamento della città, emanata d’urgenza a seguito dell’ennesima epidemia di colera, segna l’avvio dei grandi lavori di demolizione e costruzione nella malsana e super-affollata città bassa, con il contemporaneo sloggiamento delle classi povere dai bassi e dai fondaci verso la periferia.  Delle circa 20.000 persone sfrattate dal centro, circa 10.000 ritorneranno ad affollare la città bassa, mentre 10.000 andranno nei nuovi rioni, ad est della città, dove si trovavano le prime industrie, il porto e le paludi. La Società per il Risanamento, che realizzava gli interventi in città, aveva anche il monopolio speculativo dei nuovi quartieri per gli sfollati, e li costruiva al Borgo Loreto e all’Arenaccia; ma i suoi edifici pluri-cortile erano un affollatissimo caravan-serraglio, come li chiamava l’agguerrita giornalista, fondatrice del Mattino, Matilde Serao, peggiori delle pur modeste case dell’emiciclo ottocentesco della Filantropica e peggiori anche dei coevi interventi dello Iacp napoletano.  Quelle sovraffollate case al Borgo Loreto stanno ancora lì, piene di balconi e più degradate che mai e fanno compagnia ai quartieri d’emergenza costruiti nell’immediato dopoguerra e mai riqualificati come il S. Francesco, il S. Gaetano e il S. Alfonso e il De Gasperi.

Il tema della casa sociale a Napoli, a fine ottocento, era patrimonio di pochi liberali illuminati. La condizione di penuria delle abitazioni per le classi povere e per l’esigua classe operaia erano enormi e le iniziative concrete del paternalismo liberale napoletano poca cosa.  

L’iniziativa statale sulle abitazioni si attiva a Napoli in un periodo ancora segnato da ampio malcostume politico, forti tensioni sociali, ma anche dalle prime iniziative industriali conseguenti alla legge speciale per Napoli del 1904[1].  La nascita dello Iacp subisce un ritardo di cinque anni dall’approvazione della legge Luzzatti perché a Napoli il Comune non voleva fare concorrenza al monopolio delle case economiche consegnato in mano alla Società per il Risanamento e si attese cosi quasi il completamento dei programmi economici del Risanamento prima di attivare l’Icp. L’Istituto per le case popolari viene creato nel 1908 e in circa trent’anni, dal 1910 al 1943, realizza nel rispetto dei piani di espansione locali, diversi rioni popolari per le classi meno abbienti, con fitti contenuti, edifici ben costruiti e igienici, botteghe ai piani terra e lavatoi, e dopo qualche anno anche scuola e chiesa nelle vicinanze.  Il difetto stava nella distanza eccessiva dalla città che ghettizzava la vita degli abitanti. Gli edifici popolari, la cui estetica non superava la buona edilizia, avevano piccoli alloggi, di due o tre vani, con rari balconi e con affollamento di circa tre abitanti/vano, pur sempre migliore della media di allora (ancora nel 1980, le indagini nella periferia dei casali, hanno trovato un affollamento medio dell’ordine di 2,7 abitanti/vano). Agli inquilini era richiesto un comportamento civile che assecondava i rapporti di vicinato. In seguito, con il sigillo del fascismo, i nuovi rioni abbandonarono l’estrema periferia e si avvicinarono alla città, assumendo i caratteri figurativi ottocenteschi e borghesi, di sicura tradizione ed immagine. Ma non ci abitavano più fasce sociali povere e diversificate. Quelle case erano destinate, salvo pochi interventi, a diverse categorie di dipendenti pubblici, come militari, polizia, giustizia etc. a cui erano riservate le case con patto d futura vendita.

Durante il fascismo i rioni già costruiti dall’ICP, subiscono un re-styling, e vengono modernizzati e ampliati: all’esterno viene scelta una mascheratura neo-barocca, mentre all’interno si realizzano nuovi impianti per cucine a gas e gabinetti anche con doccia. Viene anche aumentata la cubatura, diminuita l’area edificata, e previsti campi da gioco, giardini e anche qualche attrezzatura. Ma l’architettura moderna dei quartieri, che si praticava già dal 1920 in Olanda e in Germania, è completamente bandita dal Regime, considerata troppo internazionale e troppo poco patriottica.

Acquisite donazioni di suoli e finanziamenti comunali, l’Icp costruisce tre rioni nelle parti estreme della città, in zone previste dal Piano di Ampliamento del 1885, a Poggioreale, all’Arenaccia e a Fuorigrotta: la zona ad est è prevista come sviluppo industriale, la zona ad ovest come espansione della città. Nel 1910 l’ICP costruisce a Poggioreale il suo primo rione di case popolari che chiamerà poi Vittorio Emanuele III. Il rione viene illustrato nei fascicoli dell’ICP con foto significative per una politica   abitativa: un severo custode in divisa presidia il rione, un balcone fiorito che propaganda emulazione e una cucina a legna/carbone che simboleggia un comfort raggiunto.  L’ing. Primicerio dell’Ufficio tecnico disegna un piano reticolare con isolati composti da quattro palazzine in tufo a quattro piani, senza spazi interni oltre le strade; gli edifici hanno quattro alloggi a scala, di due vani e cucinino, con balcone o loggetta, pranzo passante con gabinetto areato. L’illuminazione pubblica è a gas, quella negli edifici, elettrica. C’è pochissima ricerca stilistica in questi edifici, i progetti provengono in parte dalla manualistica, e anche quelli simili fatti dall’ing. Francesco De Simone, sono più attenti all’igiene e all’aerazione che alla rappresentazione.  L’affollamento previsto è di tre abitanti/vano, più basso di quello mediamente esistente nelle case povere che allora arrivava a 5 ab/vano, con picchi nei bassi di 10 ab/vano. Di attrezzature comuni nel rione c’è solo il lavatoio con fornace per l’acqua calda, cui poi seguirà, dopo la guerra, un asilo pubblico.

La scelta degli inquilini, impiegati, operai e artigiani, viene subordinata tra l’altro alla buona condotta pubblica ed alla capacità reddituale di pagare i fitti che venivano calcolati in circa il 3% del costo dell’investimento detratte le mere spese[2]; in tal modo l’Istituto riusciva a pareggiare i conti e a svolgere anche una certa azione civica di educazione dando premi in denaro a quelle famiglie che tenevano gli alloggi “in stato di nettezza ed in ordine le suppelletti”.

Poco c’è da dire in più sugli altri interventi di questo primo periodo, come il rione Diaz all’Arenaccia e il Duca d’Aosta a Fuorigrotta, salvo l’aumento delle densità edilizie che viene attuato con l’uso di edifici a cortile aperto a cinque piani. La politica dei suoli a basso prezzo porta l’Istituto ad acquistare nella zona aperta, nelle paludi del Pascone, un suolo di 4,5 ettari che inizia ad edificare solo dopo la guerra del 1915-18.  Nasce cosi, dopo ampie bonifiche, nella zona di Gianturco, il Rione Luzzatti con un impianto di sei isolati quadrati troppo densificati con otto palazzine per isolato e con botteghe. Negli anni trenta il rione viene ampliato con un’interessante corte rettangolare che subisce poi, a causa dei bombardamenti, come tutti gli altri edifici del rione, la perdita totale dei decori stilistici, mai più ricostruiti. 

Tra gli Istituti di case popolari italiani, il dibattito sul miglior modello abitativo per gli operai era allora un tema all’ordine del giorno. Molto fascino esercitava nel primo dopoguerra il mito inglese del villaggio giardino, un modello che da noi incontrava forti resistenze a causa dell’ampiezza dei suoli necessari e dei costi insostenibili per una cosi bassa densità. Oltre che a Milano, anche a Napoli vi erano molti sostenitori di una simile forma abitativa. L’Icp aveva progettato un villaggio giardino intorno a Castel S. Elmo, ma non era riuscito a realizzarlo per la paura pubblica d’innesti sociali non consoni al luogo. Miglior fortuna ebbe la cooperativa ferrovieri Scodes che, sulle pendici di Capodimonte, nel 1927, riesce a costruire 36 villini bi-familiari.

Sulla falsariga di questo modello, ma modificato per tipologia e densità, l’Icp della Regione Cumana realizza, nello stesso anno, un intervento a palazzine il Rione Bagnoli-Agnano, per i quadri operai della vicina fabbrica siderurgica Ilva.

Forse suggerito da Gustavo Giovannoni, che redigeva in quegli anni il Piano per il rione occidentale, e collaborato a Roma ai progetti della Garbatella e della città giardino Aniene, nasce così un impianto a cul de sac, con palazzine a quattro piani, due alloggi a scala di tre vani, ampia cucina, gabinetto con vasca e balcone. Una privilegiata residenza operaia di case pubbliche a riscatto di cui alcune trattate con timide decorazioni liberty, che si aggiungevano all’offerta di case private, con destinazione operaia, già esistente a Bagnoli.     

Col fascismo l’ICP cambia natura: dall’iniziale dipendenza dal Comune, l’Istituto passa alle dipendenze del Ministero dei LL. PP, perdendo totalmente autonomia, ma guadagnando maggiori finanziamenti e facilitazioni da parte dell’Alto Commissario per la città che intanto aveva sostituito il sindaco con un governatore.   Le case pubbliche, ora non più popolari ma economiche, acquistano una notevole riconoscibilità pubblica dando evidenza al nuovo trattamento che lo Stato stava riservando ai suoi dipendenti.

L’istituto inaugura la sua nuova stagione con il re-styling degli edifici vecchi, aumento delle altezze con sopralzi, e piccole modernizzazioni. Per esempio la feritoia di aerazione del gabinetto, cosi diffusa nei casamenti popolari, diviene metà finestra accoppiata all’altra metà della cucina; in tal modo il prospetto dell’edificio viene migliorato e la serie ordinata delle finestre non subisce interruzioni con le anti-estetiche feritoie.

A partire dagli anni trenta vengono migliorati gli impianti interni delle cucine con la fornitura di fornello a gas accanto alla cucina a legna/carbone e dotazione di lavandino con sgocciolatoio; nei gabinetti si sperimenta una doccia a pavimento con acqua calda proveniente dalla cucina, mentre nei rioni in centro città, di maggior pregio, i gabinetti vengono dotati di vasca con acqua calda, ma senza bidet.  Sulla copertura degli edifici vengono previsti stenditoi protetti e negli ampliamenti dei rioni sono riservati nuovi piccoli spazi per giardini e previste alberature. La vecchia politica di educazione civica acquista ora maggiore forza; vengono dati premi alle famiglie non solo per i migliori balconi, ma anche per natalità, per culle e corredo ben tenute, per figli studiosi, e cucine ben messe, con riduzioni dei fitti per famiglie numerose.

L’ampliamento del Duca d’Aosta a Fuorigrotta mostra, meglio di altri, la nuova rappresentazione delle case dello stato fascista: senza cambiare l’impianto planimetrico e la pianta degli edifici precedenti, ma ritagliando tre alloggi a scala al posto dei quattro usuali, si fa spazio per alloggi più grandi, tre vani con ampia cucina e wc. I nuovi edifici acquistano ora un aspetto borghese con forti decorazioni neo-barocche, come quelle del Rettifilo, con uso di elementi monumentali come il portale d’ingresso, e sopralzi decorativi in copertura, pronunciati cornicioni aggettanti e varietà nei prospetti attraverso la variazione del numero dei piani. 

Anche la politica dei suoli cambia verso: non più interventi in aree periferiche, salvo laddove i suoli sono già stati acquistati, e in posti non urbanizzati ma edifici in aree disponibili vicino al centro magari prodotte dalle demolizioni per i “risanamenti urbani” iniziate negli anni trenta.

A Posillipo, il Rione Duca di Genova mostra imponenti soluzioni scenografiche che, sorte intorno a piazza S. Luigi, aprono le stanze al panorama del golfo. Gli edifici hanno una ricercata e colorata decorazione, sono distribuiti con due alloggi a scala e con abitazioni a quattro vani, ampia cucina e bagno, chiaramente destinati ad un ceto non popolare. A Fuorigrotta il Rione Miraglia, dedicato al fondatore dell’ICP allora scomparso, è caratterizzato da un complesso a corte aperta con ampia presenza di verde.

Diversi interventi vengono realizzati, verso la fine del regime, a seguito delle demolizioni per i risanamenti igienici. Di solito si tratta di aree piccole, sparse in città, che consentono singoli interventi edilizi, come a piazza Ottcalli, in via S. Caterina da Siena, in via Ponti Rossi, al Ponte dei Granili. Tra questi, un interessante intervento a corte è il Duca degli Abbruzzi (1933-35, distrutto dalla guerra) al Borgo Loreto, dove viene abbandonato il riferimento al neo-barocco per un carattere più novecentesco. Nell’intervento compare anche un’innovazione tecnica nell’alloggio: i gabinetti hanno doccia con acqua calda prodotta dalla stufa a carbone in cucina.

L’Isolato MCM è l’unico intervento privato di case operaie fatto da una grande industria tessile. Disegnato dall’ing. Camillo Guerra, di formazione classica, la MCM realizza a Capodichino, su un suolo panoramicissimo, una specie di Hof mediterranea, un imponente edificio aperto sulla città, dalle masse edilizie scalettate e degradanti verso il paesaggio sottostante e privo di ogni ornamento. Il grande edificio ha quattro alloggi a scala, con due vani, cucinino e balcone, senza corridoio.

Negli ultimi anni del regime, lo stile neo-barocco assunto a rappresentare le case del regime, cede il passo a semplificazioni stilistiche moderne; ne sono esempi alcuni edifici al rione Principe di Piemonte (1939, distrutto in parte dalla guerra) che accoglieva gli sfollati dai Granili e nell’edificio ai Ponti Rossi a Capodimonte (1936) risultato dei risanamenti urbani in quella zona. 

Anche la pubblicistica dell’Istituto cambia carattere durante il fascismo. Le pubblicazioni diventano ora più fotografiche che analitiche, più propagandistiche che dettagliate.  Si perde cosi parte della storia sociale dei rioni, i mestieri degli inquilini, i nati, i morti ed i costi, a vantaggio di immagini ben fatte in b/n e di affollate inaugurazioni ufficiali.

L’attività edilizia, con le migliorie fatte negli alloggi, non produce debiti da parte dell’Icp che, finanziato comunque dal Governo, fino alla fine del fascismo riesce a pareggiare i suoi conti economici nonostante il numero di alloggi realizzati fosse il doppio di quelli del periodo giolittiano[3]. Ma nonostante questi risultati sia l’attività edilizia privata sia gli interventi pubblici non raggiungono che la metà delle necessità urbane di allora[4] e a nulla servono le iniziative dimostrative del regime come le casette semi-rurali o le case minime[5] realizzate oltre la periferia. In realtà, a causa dei Risanamenti urbani, l’affollamento esistente in centro città aumenta e non diminuisce, innalzando l’entropia urbana.

Verso la fine del fascismo, in pieno sforzo bellico, l’IRI realizza a Pomigliano d’Arco la fabbrica aeronautica AlfaRomeo e un quartiere con alloggi per impiegati ed operai.

Sopravvissuto alla distruzione bellica della fabbrica, bombardata dagli inglesi, il quartiere AlfaRomeo mostra un inaspettato impianto razionalista simile a una siedlung tedesca. L’architettura è d’avanguardia e la dimensione monumentale, con corti lunghe 200 metri, con orti all’interno e botteghe in testata. Gli alloggi sono differenziati per categorie di lavoratori: quattro alloggi per scala da due vani e tre vani, cucina e wc con vasca, per gli operai; due alloggi a scala da quattro vani, cucina e gabinetto con vasca per impiegati. Unica decorazione presente sono le belle formelle in cotto, poste in chiave sui portoncini d’ingresso, che rappresentano i mestieri. Il progetto, redatto da Alessandro Cairoli, é disegnato alla maniera del suo concittadino Terragni, sobrio con sentori razionalisti; ma la cosa interessante è che il quartiere ha mantenuto il suo carattere quasi inalterato fino a oggi, salvo gli orti interni, usati individualmente come garage auto.  

La distruzione fatta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale aggiunse rovine e distruzioni alla storica penuria di abitazioni in città, non risolta né durante il periodo giolittiano né in quello fascista.  Si determinò cosi un enorme fabbisogno di case che divenne una vera emergenza civile.

Per fretta e per risparmio si costruirono sulle fondazioni degli edifici fascisti i primi quartieri del dopoguerra, come il Rione Cesare Battisti (1945-48), nei quali si sperimentano i giovani architetti napoletani, più volenterosi che preparati, che guardano con simpatia al razionalismo tedesco e a Le Corbusier come F. Di Salvo, L. Cosenza, G. De Luca, F. Della Sala. Ma già qualche anno dopo, con l’Ina-Casa, quegli stessi architetti intrecciano razionalismo e organicismo in progetti più maturi e pragmatici.  In fondo è proprio il salto dalle prime esperienze razionaliste, quando si costruivano solo case ancora in città, alla seconda stagione quando si volevano fare quartieri quasi autosufficienti (1949-63) fuori città, che vengono fuori i limiti e le difficoltà del programma Ina-Casa. I finanziamenti riguardano le case, le urbanizzazioni e le chiese, mancano i finanziamenti ai Comuni per realizzare i servizi pubblici e le attrezzature e l’Ina-Casa non sempre riesce, particolarmente al Sud, a convincere i Comuni ad impegnarsi tempestivamente per portare a termine quei servizi e quelle attrezzature che dovevano garantire la vita e l’autosufficienza del quartiere stesso. Cosi l’autosufficienza proclamata rimane spesso nei progetti e la separatezza con la quale i quartieri nascono rispetto alla città, caratterizza ancora i quartieri Ina-Casa come isole autonome a vita limitata. In realtà l’autosufficienza era più una posizione ideologica, una scelta culturale che avrebbe dovuto dare vita al quartiere, ma che si realizzò in parte e tardi e solo nei grandi interventi. A Napoli solo in quartieri come la Loggetta o l’Ina-Secondigliano la dotazione realizzata di attrezzature ha consentito una certa vita autonoma.

Credo che sull’autosufficienza dei quartieri ci fossero diversi equivoci che poi hanno angustiato il progetto e la vita dei quartieri pubblici successivi. Mi riferisco soprattutto all’idea che anche quartieri di 2000 abitanti dovessero avere tutte le necessità di vita sociale al loro interno. Tale ragionamento era conseguenza del fatto che, per risparmiare, lo Stato realizzava interventi fuori i centri abitati e anche quando esistevano borghi, più o meno strutturati, i nuovi quartieri se ne distaccavano per principio o per convenienza.   L’autonomia spingeva verso l’autosufficienza, ma mancavano le risorse finanziarie per le attrezzature che non dipendevano dall’Ina-Casa e una dimensione di scala, un numero sufficiente di abitanti cioè, che la rendesse possibile.

Gli esempi svedesi come Vallingby, spingevano tutti in quella stessa direzione, ma essi avevano due punti forti a loro vantaggio: trasporto pubblico su ferro e centri commerciali. Quelle esperienze non conoscevano lo spezzettamento delle realizzazioni tra diversi soggetti pubblici, volute dalla politica democristiana che si attuava nel nostro paese: quella fu una scelta politica lobbistica che indebolì la riuscita dei quartieri su scala nazionale.

Se accantoniamo però l’autosufficienza, i quartieri Ina-Casa assumono, anche a Napoli, l’importanza di un miracolo italiano, un risultato inaspettato per qualità e quantità[6].

Nel dopoguerra lo Stato affidò inizialmente al Genio Civile il compito di risolvere le situazioni più urgenti per i senza tetto napoletani. Nel 1952 un piano di emergenza previde sei quartieri ultrapopolari[7] disseminati disordinatamente in periferia (S. Alfonso, S. Gaetano, De Gasperi, S. Francesco etc.). Furono interventi d’emergenza, oggi affollatissimi e malandati ma, ahimè, ancora in uso. 

Uno dei migliori quartieri di quel periodo razionalista che ha al suo attivo interessanti interventi a Barra, a via Stadera e sperimentazioni tecnologiche a Torre Ranieri, è il quartiere in Viale Augusto[8] a Fuorigrotta.

Mentre via Stadera è la prima sperimentazione architettonica sul moderno che fanno i giovani napoletani, Barra è un ex casale con tentativo razionalista riuscito solo a metà, un quartiere di sole case con distanze tra gli edifici troppo ravvicinati, senza attrezzature salvo la chiesa. Le palazzine a Torre Ranieri, in sinergia col gruppo del QT8 a Milano di Bottoni, motivato dalla convinzione della necessità di dare vita ad una sperimentazione costruttiva sull’abitazione popolare per indirizzare la ricostruzione nazionale verso una dimensione industriale. Il tentativo non ebbe successo politico, sconfitto dalle scelte della politica democristiana che preferì una ricostruzione non sperimentale e anti-industriale che rallentò l’aggiornamento tecnico dell’edilizia nazionale.  

Il piccolo quartiere di viale Augusto di Luigi Cosenza sembra una piccola siedlung ubicata lungo una bella strada alberata disegnata da Marcello Canino in occasione dell’apertura della Mostra d’Oltremare. L’insediamento è composto da tre stecche di sei piani, chiuse su strada da un basso corpo porticato che le unisce tutte insieme; gli alloggi sono ben distribuiti a corridoio, con quattro vani, cucina, bagno completo e lavatoio sul terrazzo di servizio mentre il terrazzo di soggiorno serve anche da ingresso. 

In città, lungo la nuova via Marina, tracciata intorno al porto, il rione Stella Polare[9] risolve magistralmente un incrocio urbano a 45°, con due edifici, uno curvo e l’altro di cortina sulla nuova strada, i cui affollati parapetti bianchi spiccavano allora sul fondo rosso ciliegia dell’edificio come uno spot pubblicitario. Gli alloggi sono ottimamente distribuiti senza spreco, tre/quattro vani, cucina e bagno completo.

Nella periferia est, a Ponticelli, in una zona ben servita da trasporto pubblico, l’Ina Casa realizza il suo primo quartiere napoletano a Ponticelli.

Si tratta di un quartiere sub-urbano che funziona e dove il vecchio senso di comunità, non appare scomparso: un quartiere autosufficiente a bassa densità, con tessuto di case a schiera date a riscatto, e al centro nel verde, edifici in linea con alloggi in fitto.

Se si vuole trovare un quartiere perfettamente coerente con l’ideologia Ina Casa, l’Ina Ponticelli calza a pennello.  L’impianto prevede una fascia perimetrale a raggiera di stradine cieche con case a schiera e due isole centrali caratterizzate da edifici in linea a cinque piani, verde pubblico e attrezzature. Nel rispetto dei manuali Ina-casa, gli alloggi seguono precise indicazioni: tre/quattro vani, cucina, bagno, lavatoio, piccolo ingresso e terrazzo.  Le attrezzature, previste, ad eccezione dei negozi e del cinema, sono quasi tutte realizzate e le modifiche apportate dagli abitanti sono modeste ma pervasive.  

Lungo la stessa strada di Ponticelli, in via De Meis, si localizzano in continuità con l’InaCasa, altri due quartieri pubblici (il S. Rosa e il De Gasperi), ma il quartiere Ina-Ponticelli si distingue non tanto per l’architettura, quanto per l’attenzione alle relazioni sociali: esattamente come sostenevano allora Adalberto Libera autore del progetto urbanistico e Giovanni Astengo. Degli edifici sociali previsti non viene realizzato il centro civico; ma tale limitazione non sembra averne menomato la vita sociale che è messa in pericolo invece dallo strabordare del degrado sociale del confinante rione De Gasperi.   

Nella parte ovest della città, poggiato su di un’altura naturale, il quartiere La Loggetta mostra un’invidiabile ed rara condizione paesistica ben sfruttata.   Il disegno urbanistico di De Luca lo connota come un borgo sopra un altopiano dentro la città, le cui case guardano verso l’interno e non al paesaggio. Una strada principale sinuosa, via Gigante, lo attraversa in lunghezza con soli due punti di accesso, disegnando isolati a fuso costruiti con bassi edifici e una zona centrale attrezzata, appena diversificata, con portici e edifici di maggiore altezza disegnati da Carlo Cocchia. Alla tranquilla architettura di paese delle residenze si contrappone la forza del linguaggio accorsato, che strizza l’occhio al design scandinavo, della chiesa con portico metallico e panciuta torre campanaria di Capobianco.

A Pozzuoli una rara e fortunata condizione riunisce in un solo progetto, un architetto razionalista (L. Cosenza), un paesaggista (P. Porcinai), un designer (M. Nizzoli) ed un imprenditore illuminato (Adriano Olivetti). Il piccolo quartiere Olivetti per gli operai della vicina omonima fabbrica esprime il meglio di una visione organica intrisa di tradizione contadina. Un quartiere operaio di sole case, immerso nel verde e aperto al panorama del golfo di Pozzuoli. L’architettura ripropone qui la corte come forma dell’aggregazione e centro vitale dell’insediamento. Essa viene perimetrata da piccole palazzine modellate con scale aperte variamente raggruppate. L’alloggio è ben progettato, doppio terrazzo, doppio bagno, ingresso e tinello: certamente un lusso per gli operai che il colore di Nizzoli rendeva come oggetti di design appena usciti dalla fabbrica.

Sulle pendici del Vomero, verso Soccavo, l’InaCasa realizza il più grande intervento pubblico del periodo, il quartiere Soccavo-Canzanella[10]. L’intervento è un’espansione urbana sulle falde discendenti della collina del Vomero, e la sua parte Nord, progettata da Mario Fiorentino e Giulio Sterbini, è un pezzo di qualità non solo urbanistica ma architettonica e paesistica. L’intervento è impostato con basse cortine edilizie su Via Piave, con edifici a greca e a corte che disegnano un interessante spazio continuo esaltato dal verde pubblico. Due edifici a torre segnano l’inizio/fine del quartiere e danno forza alla cortina edilizia.  Gli edifici, realizzati in cemento e mattoni a vista, propongono diverse tipologie abitative e sono attentamente studiati e disegnati in esecutivo nei dettagli e negli elementi prefabbricati come il blocco finestra-balcone-tapparella. Le piante degli alloggi contengono alcune variazioni dello schema Ina-Casa: edifici con chiostrina e ingresso all’alloggio su tinello passante, che non sembrano soluzioni ottimali.

In prosecuzione del rione Soccavo-Canzanella, in una vasta area di campagna, la politica nazionale dei CEP, approva nel 1958 un quartiere satellite per circa 30.000 abitanti, mettendo insieme gli sforzi di molti Enti pubblici.  Unito alla città e servito da trasporto pubblico nasce il Cep Traiano[11], ultimo intervento pubblico a Napoli dove si riconosce una tensione per una progettazione urbana moderna. La scommessa sul grande salto di scala non dà però esiti positivi a causa di un insufficiente livello organizzativo e gestionale ed una mancata collaborazione e tempistica comunale. Destinato ai ceti esclusi dalle regole Ina-casa e perciò sostanzialmente per abitanti bisognosi e in povertà, l’intervento viene pensato come un mix sociale che prevede anche quote di commercio e di terziario; ma l’abbandono dell’esperienza InaCasa dei centri sociali, aggrava le difficoltà abitative di intessere relazioni comunitarie.  

Il quartiere, disegnato da Marcello Canino, è solcato da una larga strada alberata con più file di pini mediterranei, che unisce sei nuclei edilizi raccolti intorno ad un centro rappresentato da un’attrezzatura pubblica: una chiesa, un mercato, una scuola, o una piazzetta. Il centro civico è configurato con due piazze, una civile e l’altra religiosa, mentre la parte commerciale è demandata per lo più fuori il quartiere, nella vicina via Epomeo. Composto da tanti differenti tipi edilizi ed architetture, come le belle case in linea e a torre di M. Angrisani, le case a torre di M. Capobianco e di Sbriziolo, le case sulla piazza di M. Canino, l’asilo nido di F. Della Sala e recentemente, nel 1979, la scuola di Salvatore Bisogni, al Traiano non mancava certo la qualità per diventare un eccellente luogo di vita. La sorte infausta invece lo trasforma da subito segnandolo come uno stigma dei fallimenti cittadini a causa soprattutto dei ritardi e incompletezze delle infrastrutture primarie da parte del Comune (acqua, gas, fogne e strade), della mixitè sociale non gestita, ed infine, come era prevedibile, da una pervasiva insicurezza sociale alimentata da infiltrazioni delinquenziali.

Nell’estrema periferia nord della città, a Secondigliano, in una zona per nulla servita allora da trasporto pubblico, viene progettato un grande quartiere satellite l’ Ina-Secondigliano[12] che soffrirà per molto tempo il suo totale isolamento. 

Il quartiere è disegnato intorno ad una strada centrale sinuosa- via Monterosa- che per rapporto edifici/strada prende a modello la storica via Costantinopoli con tutti gli edifici di pari altezza. La strada residenziale-commerciale distribuisce i quattro nuclei residenziali e rappresenta il centro del quartiere insieme agli spazi pubblici e alle attrezzature, soprattutto chiesa e centro sociale, presenti nel suo centro.

Nella stessa zona del quartiere Ina-Secondigliano, a seguito della legge 167, viene disegnato nel 1965 un grande piano urbanistico (R. D’Ambrosio e F. Della Sala), influenzato da Giulio De Luca, che espropriando centinaia di ettari, concentra tutta la previsione di case pubbliche e di case cooperative per la città di Napoli, parte a Secondigliano e parte a Ponticelli. E’ una scelta urbanistica che appare come una scelta consapevole del riformismo del centro sinistra, la scelta di una periferizzazione della residenza, senza intenzioni programmatiche di costruire realtà urbane oltre le case.

Il piano è senza forma, un’anti-città modernissima nelle intenzioni, senza debiti formali col passato, fatta di assi stradali e metri-cubi. Il piano si rivela un errore madornale, una distesa di casermoni 167, di cui è difficile rintracciare qualche differenza in meglio, come per esempio le distinte torri a 12 piani Iacp progettate da Gerardo Mazziotti, in mattoni e cemento a vista.  In tale contesto di giganti sorgevano (sono in corso di abbattimento, salvo una) anche le sventurate sette Vele di Scampia[13] di Franz Di Salvo: edifici in prefabbricato pesante, lunghi 100 metri e alti 40 che contenevano oltre 200 alloggi ciascuna, tutti poco adatti a case popolari a causa della disfunzione dei ballatoi centrali scoperti posti nell’intercapedine su cui affacciano cucine e bagni degli alloggi, e che tolgono all’abitare l’indispensabile isolamento. 

Agli inizi degli anni ottanta accadono due calamità naturali che danno luogo a due grandi interventi di segno opposto. Il terremoto irpino del 1980 e il bradisismo a Pozzuoli del 1983.

Il terremoto del 1980 lambisce appena la città, quanto basta però per mettere in moto una grande opera di costruzione e recupero (un investimento di circa 25 miliardi di euro per circa 20.000 case e infrastrutture)[14] che investe soprattutto le periferie e i suoi casali storici. Dopo una prima fase di emergenza che vede la realizzazione di nuovi interventi (circa 13.500 alloggi) con ampio uso di prefabbricati, realizzati in spazi interstiziali che peggiorano i contesti periferici, segue una più matura fase di recupero urbano dentro ai 12 casali storici inglobati nella periferia (1983-1989 circa, quasi 6000 alloggi). Un nuovo sforzo culturale, quasi una volontà di radicamento dell’architettura, riconosce nei casali una radice storica del senso della città di Napoli e decide di conservare i tessuti urbani, migliorare le infrastrutture, realizzare i servizi mancanti e abbassare l’affollamento di quasi 3 abitanti/vano. 

Gli interventi si pongono all’interno delle logiche morfologiche dei tessuti dei casali e spesso aderiscono anche alle tipologie a corte prevalenti. Si tratta d’interventi di qualità, esemplari di una nuova concezione del recupero che vuole intervenire senza stravolgere l’esistente. Il metodo giuridico usato per l’intervento è l’esproprio generalizzato, che purtroppo produce effetti negativi sulla partecipazione degli abitanti alle trasformazioni; ma anche i criteri delle assegnazioni, troppo vari e disordinati, generano confusione e tensioni sociali e lasciano passare infiltrazioni camorristiche non di poco conto. La penuria storica di abitazioni che a Napoli conta appena un 50% di proprietari contro una media nazionale dell’80%, non poteva non trasformarsi in forte tensione sociale per le assegnazioni tra i meno abbienti[15]. Gli alloggi vengono, infatti, assegnati soprattutto a sfrattati, e poi ad abitanti di containers, di bassi, o sloggiati per i nuovi interventi e varie altre ragioni; tutte iscrivibili in una generale assistenza sociale ai senza casa che non ha evitato, allora, l’occupazione abusiva di oltre 2000 alloggi con una colpevole tolleranza pubblica che ha prodotto diverse sanatorie di cui l’ultima nel 2013.

Nel casale di Miano, ai Vichi Ponte e Parisi [16], Capobianco si misura col tessuto minuto delle corti e ne riprogetta una versione coloratissima piena di piccole variazioni architettoniche, in modo da conformare spazi intimi sia interni sia aperti su strada; una risposta moderna e convincente alla tradizione del luogo, ristudiata manipolando il tipo a corte e sfruttando ogni occasione del tracciato per soluzioni architettoniche differenziate.

Diversamente da Miano, ai Censi di Secondigliano (L. Pisciotti e A. Lavaggi), la sostituzione del tessuto è invece attuata con una riproposizione di un tipo base a corte semichiusa che ricostituisce per sommatoria la morfologia dei lunghi isolati storici.

 A Marianella, via della Bontà[17] l’intervento di sostituzione di Purini e Thermes un tessuto di sei corti quadrate con torri scale poste a scacchiera, ripropone in modo evocativo un punto di vista sul recinto residenziale, senza riproposizioni tipologiche. Il progetto sviluppa abilmente gli studi di Libera e di Moretti per le case al Villaggio Olimpico di Roma.

A S. Pietro a Patierno, corso S. Pietro, un ampio progetto generale di riqualificazione (G. Borrelli, D. Rabitti e L. Gentile) propone il ripristino di regole tipo-morfologiche e il tracciamento di una nuova strada centrale. L’area centrale del casale viene riqualificata con attenti interventi di recupero (sede USL e Biblioteca, G. De Lillo) e con una corretta, ma non brillante edilizia di sostituzione che caratterizza il nuovo Corso S. Pietro, accompagnata da un progetto di verde pubblico e attrezzature scolastiche e sportive (D. Rabitti e R. Lucci) che configurano un insieme a qualità diffusa. Al centro di San Pietro a Patierno viene ridisegnata e restaurata piazza Guarino, con municipio e residenze il cui progetto, con un intervento a scala monumentale, forte e denso, è giocato su di un sottile e coraggioso rapporto tra pre-esistenze, nuovi edifici e suggestioni della memoria da Francesco Venezia.   

A Ponticelli, via Napoli la strada mostrava un riconoscibile tessuto di corti accostate che è stato recuperato in massima parte costituendo forse il miglior esempio di conservazione di tutto l’intervento del PSER napoletano. Sempre a Ponticelli, vicino Via Napoli, sul bordo del parco De Simone, sorge l’unico esempio di edificio alto di tutto il programma PSER. Una torre di R. Dalisi che si affianca alle poche sperimentazioni di torri[18] già fatte nella periferia di Napoli.  Ostracizzate e penalizzate da pregiudizi popolari, le torri potevano invece rappresentare una possibile alternativa ai lunghi e alti casermoni costruiti nella prima fase del PSER.

Nel 1983 Il bradisismo di Pozzuoli costringe molti puteolani a sfollare. La nuova emergenza abitativa viene affrontata dallo Stato con la costruzione di un nuovo quartiere/città per circa 30.000 abitanti, a circa 5 km dalla madre patria, Monteruscello. Il piano viene disegnato da Agostino Renna, influenzato dal razionalismo della “tendenza”. Si tratta di un piano aperto, pieno di verde, urbanizzato molto rigidamente con edifici a schiera posti nord –sud e viabilità est-ovest.  Mentre negli edifici pubblici si avverte uno sforzo di senso e di forma, le residenze, affidate unicamente al prefabbricato, sono lasciate nude e afasiche, come se fossero in attesa di sostituzione.  Invece nei viali alberati a cinque file, come nelle città socialiste o in quelle ottocentesche, si esprime un’aspirazione monumentale che vuole lasciare duratura traccia di sé e rappresenta il segno più forte di tutto l’intervento. Gli spazi pubblici sono diffusi e generosi, ma appaiono spazi vuoti, senza attività e il commercio non assume un ruolo centrale nella previsione delle relazioni urbane. Le piazze scontano un certo carattere astratto, un dialogo introverso con riferimenti lontani e remoti che le fanno assomigliare più alle piazze senza vita di Gibellina che alle piazzette dei borghi italiani. Il quartiere non riesce a trasformarsi da insieme di residenze a realtà urbana con funzioni complesse, soffre di asfissia.  La mancanza di luoghi di commercio e d’intrattenimento molto toglie alle relazioni sociali, ristrette alla funzione abitativa del solo quartiere e aggravate dalla mancanza di un efficiente collegamento con i dintorni e con Napoli. Il tempo lungo dirà della possibilità di Monteruscello di superare i limiti della sua nascita che all’età di venticinque anni non sono ancora stati superati.



[1] Cfr. Claudia Petraccone, Napoli moderna e contemporanea, Guida editori, 1981, pag. 110

[2] La legge statale stabiliva un massimo del 4% come remunerazione del capitale. A Milano fino al 1934 la remunerazione fu del 3,25%, poi si abbassò al’1,75%.. Cfr.:  E.Bonfanti, M. Scolari, La vicenda urbanistica e edilizia dell’ICP di Milano, a cura di Luca Scacchetti, Clup, 1982.

[3] L’ICP realizza dal 1914 al 1927, 1250 alloggi con caratteristiche popolari e case in fitto, mentre nel periodo fascista, dal 1927 al 1943, realizza 2835 alloggi con caratteristiche economiche e case soprattutto a riscatto. La differenza è da ricercarsi per prima cosa nella dimensione dell’alloggio, da due a tre vani, poi nella decorazione degli esterni, e infine nella maggiore dotazione d’impianti nelle cucine e nei wc;

[4] Cfr. G. Aliberti, “Profilo dell’Economia napoletana dall’Unità al fascismo”, in Storia di Napoli, pag. 460 e seg.

[5] Cfr. M. Furnari, “Case minime e rioni popolari”, pag. 44 e seg. in << ArQ2>>, 1989, Dipartimento di Progettazione Urbana dell’Università Federico II di Napoli;

[6] Gli alloggi pubblici realizzati a Napoli nel dopoguerra non sono di facile inventario, manca a oggi una anagrafe generale.  Cfr.: A.Libera, La scala del quartiere residenziale, 1952.

[7] Disseminati in tutta la periferia napoletana, a Miano-Piscinola, Ponticelli, Fuorigrotta, Corso Malta, S.Giovanni, Capodichino, i sei quartieri sommano 1888 piccoli alloggi. Cfr. D. Andriello,” Edilizia statale a Napoli”, in

 << Urbanistica >> n. 11-12, 1952.

[8] Viale Augusto, Fuorigrotta, Genio Civile, 1949-52 L.Cosenza, 144 alloggi, 650 abitanti.

[9] Rione Stella Polare, Via Nuova Marina, IACP, 1951-53. C.Cocchia, F. Della Sala, G.De Luca. 147 alloggi, negozi e garage.

[10] Quartiere Soccavo-Canzanella, Ina-casa, via Piave, 1957-62, prog. urban. G. De Luca, M. Canino, S. Filospeziale, 1425 alloggi, circa 9500 abitanti con molte attrezzature; Settore Nord, M. Fiorentino, G. Sterbini, 278 alloggi.

[11] Cep Traiano, viale Traiano, Soccavo, 1959-72, 130 ha, 24.000 vani, prog. urban. M. Canino, achitetture di C. Cocchia, M. Angrisani, M. Capobianco, A. Sbriziolo, F. Della Sala e altri.

[12] Secondigliano Ina-Casa, Via Monterosa, 1957-60, prog. urban. C. Cocchia, M. Capobianco, D. Pacanowski e altri, 1267 alloggi per circa 8500 abitanti, molte attrezzature.

[13] Sette edifici, 1179 alloggi, circa 6000 abitanti. Cfr. gli articoli “le Vele prologo” e “Le Vele epilogo” in Sergio Stenti, Fare Quartiere, Clean, 2016, pag. 65 e seg. e pag. 80 e seg.; per i progetti di recupero si veda: Consulenza tecnico scientifica per la redazione del piano urbanistico esecutivo, lotto M…, a cura di Antonio Lavaggi, Giannini Editore, 2010.

[14] Per i dati cfr., il fascicolo: La ricostruzione a Napoli, ottobre 1985, Il Sindaco di Napoli Commissario straordinario del Governo,

[15] Circa un migliaio di alloggi pubblici sono occupati da persone condannate col 416 bis, attività camorristica, che dovrebbero essere sfrattate, ma non lo sono per motivi di ordine pubblico. La situazione generale degli alloggi pubblici a Napoli che il 75% degli inquilini è senza reddito dichiarato e le morosità sono dell’ordine del 42%; gli alloggi occupati abusivamente sono il 37% del totale (circa 9000). Cfr. Relazione Corte dei Conti, sezione regionale, Edilizia residenziale pubblica in Campania, luglio 2006.

[16] Miano, vichi Ponte e vico Parisi, PSER, 1983-1986, sostituzione edilizia, M. Capobianco, D. Zagaria. Per tutti i dati sugli interventi PSER cfr. i fascicoli di servizio ed in particolare il Notiziario n. 11/87 del Commissario straordinario di Governo.

[17] Marianella, via della Bontà, PSER, 1982-88, sostituzione edilizia, F. Purini, L. Thermes, 1982-88.

[18] La presenza di torri compare in periferia al rione Traiano (M. Capobianco, 8 piani, M. Angrisani, 10 piani, A.Sbriziolo, 10 piani), a Secondigliano 167 (G. Mazziotti, 14 piani), a via Campegna, (M. Ridolfi, 7 piani), a Ponticelli, S. Rosa (L. Cosenza, 9 piani), S. Giovanni a Teduccio (C. Aymonino, 9 piani).

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