Prima di
entrare in argomento vorrei sollevare alcune domande generali: 1. Ha senso oggi
fare case pubbliche economiche per i senza casa ? 2.Fare case economiche per i meno abbienti è
ancora oggi un dovere, un servizio a
carico dello Stato? 3. Riqualificare i
quartieri e la periferia delle grandi città è ancora un obbligo dello Stato ?
La mia
risposta è si a tutte e tre le domande. Non credo che tutto possa essere
lasciato all’iniziativa individuale o dei gruppi organizzati, magari con
incentivi economici pubblici.
Ci occupiamo
di progettare il miglioramento di un bisogno primario, non di un lusso, il
bisogno di un riparo solido dove non ci piove, non tira vento e non fa né
troppo caldo né troppo freddo; un bisogno primario come il lavoro e la salute, che
Amartya Sen, economista e premio Nobel, chiama un bene capacitante come gli ospedali.
La nostra
Costituzione dice che ogni famiglia deve
avere un alloggio adeguato, cosi come la Dichiarazione Universale dei
diritti dell’uomo prevede tra i diritti umani, il diritto all’abitazione. Nel 1969 i
movimenti per la casa innalzavano striscioni del tipo “ Diritto alla casa”, e
la politica rispose con una nuova legge per la casa e con la costruzione dei quartieri
della Grande Dimensione che non sono stati un successo, ma hanno dato casa a
molti disagiati.
Naturalmente
questo diritto è un ideale sociale e
umano cui tendere, e cui indirizzare le politiche dei governi. Ma non tutti
gli Stati/Governi sono uguali. In
Germania non c’è nessuna emergenza casa mentre da noi ancora esiste un ampio
bisogno casa. Lo Stato italiano, a fine
secolo scorso, ha smesso di fare case per i poveri e i disagiati. Le domande
agli Enti per la Casa (ex Iacp, oggi Aziende Regionali) di famiglie che
rientrano nei requisiti previsti dalla legge e con diritto all’alloggio sono
oggi oltre 650.000, ma questi Enti non hanno nessuna possibilità economica di
fare case nuove, non vengono finanziati. Si stima che ce ne siano almeno altre 350.000 di
senza casa e in condizioni di disagio. Ci sono quindi circa 1 milione di
persone che aspettano invano dallo Stato una casa. Da alcuni anni lo Stato ha
introdotto un fondo di sostegno per contribuire a pagare il fitto alle famiglie
bisognose (circa 10 mil./anno )
ma sembra che dal 2015 tale contributo non è
stato più finanziato. Quindi lo Stato ha quasi smesso completamente ogni
politica sociale verso le famiglie bisognose senza casa. In fondo siamo tornati
a com’era nell’Ottocento, il cui motto liberale era: lo Stato non finanzia, lo Stato guida. Oggi le famiglie italiane sono proprietarie di
casa per circa il 75% (al Sud e a Napoli poco oltre il 50%), ma quelle in
povertà assoluta insieme quelle che sono solo in povertà sono circa 5 milioni,
quasi un milione in più del 2017.
(Le famiglie in povertà assoluta
sono quelle che in due persone spendono meno di 1000/mese; quelle quasi povere,
spendono 1100/mese; in tre persone 1400/mese, cfr.: https://www.ilfoglio.it/cronache/2017/03/07/news/italia-legge-contrasto-poverta-senato-fact-checking-124102
)
Non tutto
fila liscio nei meccanismi di assegnazione delle poche case che ancora si
costruiscono, gestite dalle Aziende casa e dai Comuni coi programmi chiamati “ Contratti di Quartiere”. Per esempio come sapete, le Vele sono
destinate alla demolizione salvo la Vela B, ma queste case sono state occupate in parte abusivamente e il Comune
ha trovato con difficoltà e
lentezza di anni, nuovi alloggi per gli occupanti. Ma succede che le case
liberate vengono poi rioccupate da altri bisognosi che sperano anche loro in un
alloggio comunale. E’ un movimento di
senza casa spesso non legale, qualche volta camorristico, ma la base dei
"senza casa" è cosi ampia a Napoli che sembra non si esaurisca mai.
L’intervento
pubblico per dare case ai lavoratori è nato a cavallo tra Ottocento e Novecento,
per merito dei filantropi e dei liberali che con Giolitti hanno emanato la
legge Luzzatti nel 1903.
Per tutto
il secolo scorso lo Stato, attraverso la
legge Luzzatti, ha costruito case per
lavoratori poveri, contribuito finanziariamente alla costruzione di case a riscatto per ceti medi poveri e per gruppi
di famiglie che hanno costituito società
cooperative. L’Italia non è stata generosa di case con i poveri e con i
lavoratori; il patrimonio pubblico italiano ammonta oggi a circa il 7% del
patrimonio totale delle case, mentre, per esempio in Germania e in Francia, ammonta
a oltre il 20%.
La
situazione oggi è che, cambiate le condizioni socio economiche del paese, vengono
richieste soprattutto case in affitto, e
non case in proprietà perchè l’affitto è più sostenibile dal nuovo tipo di lavoro, non
stabile e precario , e dai molti nuclei monofamiliari oggi esistenti. Certo
possedere oggi una casa pubblica è una fortuna, fitti molto bassi e una casa per
sempre! Ma, come detto, c’è ne sono veramente poche. Il mercato immobiliare
privato ha talmente aumentato i prezzi di acquisto dalla crisi dei mutui occidentali del
2008, che per comprare una casa oggi servono venti anni di reddito da lavoro
normale; come dire, serve il reddito di
metà vita lavorativa !
In questo
Corso su Social Housing e periferie,
ci occupiamo di case per non ricchi e non benestanti, oggi poco aiutati dallo
Stato, il quale preferisce dare loro un reddito di cittadinanza (o
d’inclusione) senza chiedere contropartite. Questa appare una politica che non
sviluppa occupazione, diseducativa, anti-sociale e senza futuro. In Germania
esiste il reddito da occupazione: a tutti i giovani tedeschi, le aziende
propongono un lavoro retribuito per un
periodo limitato di tempo, che lo Stato poi risarcisce alle aziende stesse.
Cosa si può
fare all’Università per sostenere il miglioramento delle condizioni abitative dei non abbienti: quali interventi
sono possibili ?
Dice
Platone che per aprire i cervelli alle
persone bisogna prima aprire i cuori con l’amore per il prossimo! Credo che voi avete come studenti di
architettura, ovvero il periodo storico nel quale vivete vi incarica di una
missione sociale: non solo sviluppare la bellezza nelle città, ma anche contribuire al miglioramento abitativo
dei meno abbienti. Riqualificazione delle periferie e fare case per migliorare
la vita dei bisognosi. Sono questi due
ideali che, come architetti, vi dovrebbero guidare nella vostra formazione e
nella vostra attività per tutto questo secolo: case confortevoli, durevoli ed
economiche, e ben collegate al centro città.
Lo Stato Ottocentesco, attento ai confini,
alla costruzione della nazione, alla difesa della religione di Stato, alla
moralità pubblica, alla formazione dei cittadini come comunità con lingua e ideali
comuni (patriottismo), non costruiva case per il popolo cosi come non si occupava della sua
formazione e della sua salute (cfr. i racconti Charles Dickens per Londra. Oliver
Twist). Delle case e delle condizioni di vita dei
lavoratori se ne occupavano solo delle
Associazioni private di persone filantropiche,
di cultura liberale o cattolica e soprattutto ricche, oppure, al Nord Italia là dove si sviluppava
l’industria , alcune grandi aziende manifatturiere costruivano villaggi operai per i propri
dipendenti (Crespi d’Adda, Leumann,
Rossi, poi nel novecento Torviscosa, Olivetti, Italsider,
etc.; https://initalia.virgilio.it/archeologia-industri,
ale-in-italia-i-villaggi-operai-4422).
Queste Associazioni
private, di filantropi e nobili, d’ingegneri sanitari, e di Imprese con
politiche sociali, cercavano di migliorare le peggiori situazioni di vita tra i
lavoratori poveri: promiscuità abitativa (tre/quattro persone per stanza), alloggi
senza soggiorno, mancanza d’igiene, senza WC interni, e con scarsità di acqua
corrente, mancanza di sole e di aria. A Napoli, cosi come l’Anonima Cooperativa
a Bologna, l’Umanitaria a Milano, la Soc. Torinese per le abitazioni popolari, realizzavano
case economiche per i lavoratori.
Marino
Turchi, a Napoli, ha costruisce nel 1870 circa l’edificio della Filantropica
sulla via per Capodimonte; affittava a lavoratori con buona moralità pubblica (senza
risse, ubriachezza, furti, etc), con reddito da lavoro, figli a scuola e non in
strada.
Lo Stato Novecentesco,
nella prima metà del secolo si
fa carico della casa popolare ma continua la politica liberale di investire
assai poco. Attraverso banche e altri Enti concede terreni non di valore, tutti
posti lontano dal centro e contribuisce ad abbassare gli interessi sui mutui
che gli Enti contraggono. Anche attraverso le Esposizioni Universali e le
esperienze inglesi, il dibattito sulle migliori soluzioni per le case dei
lavoratori ebbe una discreta diffusione, interessò politici e ingegneri. I
modelli oscillavano tra casette unifamiliari, palazzine a più piani, città
–giardino, edifici a blocco tipo Mietkasernem. L’arrivo del fascismo esautora i Comuni,
accentrata la gestione a Roma nei Ministeri. Lo Stato aumenta i finanziamenti e
dirige gli investimenti su case per il pubblico impiego statale alle quali da
uno stile riconoscibile (giustizia, polizia, corpi militari, etc), tralasciando
di costruire per i ceti meno abbienti.
Nel secondo dopoguerra
lo Stato cerca di dare una casa a tutti, ma ci riesce poco. Finanzia le case popolari ma i contributi
maggiori sono a carico dei lavoratori e delle aziende, con un prelievo
direttamente in busta paga, e a carico, almeno fino al 1970. Nascono cosi i
complessi di case messi insieme a formare quartieri, tutti fuori città, da 2000
a 5000 e 10.000 abitanti. Si forma una periferia pubblica che orienta anche la
residenza privata. Gli Enti per la casa,
l’Ina in particolare, tentano di fare
case e servizi , ma non hanno i mezzi finanziari e realizzano i servizi solo
dove possono e con molto ritardo non ci riescono. L’urbanistica non si occupa
di disegnare la periferia, che è lasciata in balia delle poche regole edilizie
comunali e all’arbitrio almeno fino al 1962 (legge 167sull’esproprio dei
terreni per pubblica utilità). Intanto Ina Casa e Gescal fanno quartieri su
misura che funzionano bene con encomiabili attenzioni sociali. Poi lo
Iacp, spinto dalla politica, prova a realizzare in poco tempo grandi edifici e
ampi quartieri per alloggiare masse di poveri, ma i risultati sono pessimi. Intorno agli anni ottanta i finanziamenti per
le case pubbliche finiscono, lo Stato passa alle Regioni la materia
dell’edilizia pubblica, nel giro di qualche anno ancora, si ferma completamente:
le Regioni non investono in edilizia pubblica e i finanziamenti rimasti, sono
dirottati altrove.
Il Social Housing
Nel nuovo
secolo si evidenziano modifiche sociali considerevoli, formatesi nel corso
degli anni precedenti: soprattutto si affermano i valori dell’individualismo e
della ritirata sociale dello Stato che disincentivano l’intervento pubblico in
questo settore.
Nuove
questioni culturali s’incentrano sulle conseguenze di un ampliamento del potere
dell'individuo ed un riduzione del sentimento sociale: più poteri e
responsabilità all’individuo meno poteri
e responsabilità allo Stato che in fondo minano il cosi detto bene
pubblico Ci sono un inizio di
liquefazione dello Stato assistenziale e autoritario del Novecento , una de-responsabilizzazione e
imboscamento del potere, una responsabilizzazione del futuro di ogni
individuo che può contare solo su se
stesso. Da una parte aumenta la percezione dell’insicurezza sociale (minore
sicurezza fisica personale e lavoro instabile), dall’altra si allarga l’illusione
della libertà individuale senza confini: c’è uno scambio, maggiore libertà
individuale minore sicurezza sociale e questo scambio riduce e svilisce tutto
ciò che è pubblico, anche lo spazio pubblico.
In Italia,
paese molto fragile e poco unito, uno Stato debole accumula dal 1970 un debito
pubblico progressivo, che dal 37% del Pil arriva, alla fine dell’intervento
pubblico nel 1990, quasi a triplicarsi. Tale debolezza economica contribuisce a
metterci alla mercé dei venti di borsa e delle aspettative di guadagno degli acquirenti dei nostri titoli pubblici
(attualmente lo Stato paga ai privati compratori dei suoi titoli, tra cui molti
italiani, circa 65
mld. di euro l’anno).
L’insieme
di questi nuovi valori e la crisi economica dei mutui del 2007 contribuisce alla riduzione/cessazione in Italia di ogni attività
di costruzione di case pubbliche , mentre le case private costruite in grande
numero rimangono invendute. C’è un grande invenduto nazionale, sia di residenze
sia di terziario, insieme a fallimenti di aziende che vengono rilevate dalle
banche creditrici che si ingolfano di
case a garanzia dei mutui ( Il premier Renzi
propose nel 2017 di comprare sotto costo
dalle banche 20.000 alloggi già fatti ma la proposta non è diventa legge) .
Termina
cosi l’edilizia pubblica e inizia l’edilizia sociale privata che di tanto in
tanto fa operazioni immobiliari con reddito calmierato in accordo coi Comuni. Essa si basa sui Fondi Immobiliari bancari che
finanziano la costruzione del S.H.. Si costruiscono case per ceti medi
impoveriti dalla crisi e non per famiglie disagiate (le case non sono per i
poveri, ai quali viene dato dal Governo
un bonus casa e non più case) . Sono famiglie e persone che cercano case
in fitto soprattutto, perché gli acquisti sono troppo onerosi (una casa
pubblica ha un fitto di 100 euro/mese, una casa di Social Housing ha un fitto
mensile di almeno 500 euro, una casa privata in una grande città circa 800 euro).
Ma le case realizzate sono cosi poche
(finanziati circa 4300 alloggi), che non scalfiscono la richiesta sociale di
abitazioni economiche che ammonta oggi a 600.ooo domande. Abbiamo un disagio
abitativo che deriva dalle poche case pubbliche costruite nel 900 (circa il 5%
del totale a fronte di una media 25% di paesi come Inghilterra, Germania,
Francia, Svezia, Olanda, etc.) e dal fatto che gli alloggi pubblici non hanno
nessuna mobilità (cambio e sostituzione di inquilini), e che le
occupazioni vengono tollerate.
Il Piano Casa del 2008 (DL
112/2008) ha previsto l’intervento privato, o pubblico-privato, nella
costruzione di case sociali, cioè a prezzi calmierati. Sono previste tre
categorie di finanziamento pubblico: L’edilizia
sovvenzionata è quella a totale carico dello Stato (ormai quasi azzerata), l’edilizia agevolata dove si ha un
cofinanziamento pubblico, l’edilizia
convenzionata, che è fatta da privati con contributi fiscali pubblici o di
tipo urbanistico.
Il Social
Housing è un’edilizia sociale di mercato, cioè privata con contributi pubblici;
ma spesso in Italia gli interventi contengono tipi diversi finanziamenti
statali, mischiati insieme, le cui case vengono chiamati impropriamente Social
Housing.
La legge Piano casa 2008 ha creato i Fondi
Immobiliari bancari Si prevede che i Fondi insieme con altri soggetti, investono
in edilizia sociale privata a certe condizioni. Il meccanismo si basa sul fatto
che i Comuni o le Regioni, per rispondere al disagio abitativo, prevedano negli
strumenti pianificatori, aree da destinare a nuova edilizia sociale o immobili
da riqualificare, e da destinare a coppie, anziani, giovani, persone in co-housing.
In un rapporto di partenariato pubblico privato, utilizzando fondi nazionali,
regionali o comunali, si stringano accordi con i privati ( Cooperative, Fondi
Immob. , Imprese, Associazioni no profit) per costruire su aree
pubbliche o riqualificare edifici
pubblici. L’accordo prevede case da vendere a libero mercato, case da affittare
a prezzi calmierati, ed anche case di
proprietà pubblica ERP da fittare o vendere.
Le
esperienze migliori oggi si trovano soprattutto a Milano (via Cenni, via
Gallarate, via Civitavecchia) , ma anche a Torino, Parma e Bolzano , in quei Comuni si sono attivati, facendo anche
gare di progettazione per realizzare interventi di SH.
I caratteri del
progetto architettonico del Social Housing
Da una breve
panoramica degli interventi attuali, sul piano dell’urbanistica e
dell’architettura, si può dire che considerando che gli interventi prevedono costruzione,
gestione e redditività per gli alloggi privati in fitto o vendita (si
considera circa 3% annuo+ inflaz.) Emergono dei punti forti che si possono
sintetizzare: molta attenzione alle
questioni ambientali ed energetiche come fotovoltaico, termico solare,
pareti isolanti, abbattimento rumore, riduzione consumo acqua, aumento del
verde e della mobilità pubblica. Inoltre le società di gestione cercano di
creare tra gli inquilini/proprietari un
mix sociale il più ampio possibile, inserire larghe zone di parco, progettare parti degli interventi con alloggi piccoli e flessibili per
aggregazioni diverse, prestare molta attenzione alla morfologia non uniforme dell’intervento, e alla forma
dell’edificio con dettagli qualificanti, ed infine attenzione al basso costo di costruzione e di
manutenzione.
In sintesi
le forme di finanziamento in partenariato pubblico/privato e i modi di utilizzo
degli alloggi, sono cosi diversi che il successo di un intervento di Social
Housing dipendere soprattutto dalla capacità dell’Ente pubblico di articolare
proposte e accordi e fare da regista dell’operazione.
Cfr.:
Sergio Stenti, Fare quartiere, Clean, Napoli, 2016
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