venerdì 25 gennaio 2019

Social Housing e Periferie , Introduzione


Prima di entrare in argomento vorrei sollevare alcune domande generali: 1. Ha senso oggi fare case pubbliche economiche per i senza casa ?  2.Fare case economiche per i meno abbienti è ancora  oggi un dovere, un servizio a carico  dello Stato? 3. Riqualificare i quartieri e la periferia delle grandi città è ancora un obbligo dello Stato ?
La mia risposta è si a tutte e tre le domande. Non credo che tutto possa essere lasciato all’iniziativa individuale o dei gruppi organizzati, magari con incentivi economici pubblici.
Ci occupiamo di progettare il miglioramento di un bisogno primario, non di un lusso, il bisogno di un riparo solido dove non ci piove, non tira vento e non fa né troppo caldo né troppo freddo; un bisogno primario come il lavoro e la salute, che Amartya Sen, economista e premio Nobel, chiama un bene capacitante come gli ospedali. 
La nostra Costituzione dice che ogni famiglia deve avere un alloggio adeguato, cosi come la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo prevede tra i diritti umani,  il  diritto all’abitazione. Nel 1969 i movimenti per la casa innalzavano striscioni del tipo “ Diritto alla casa”, e la politica rispose con una nuova legge per la casa e con la costruzione dei quartieri della Grande Dimensione che non sono stati un successo, ma hanno dato casa a molti disagiati.
Naturalmente questo diritto è un ideale sociale e umano cui tendere, e cui indirizzare le politiche dei governi. Ma non tutti gli Stati/Governi  sono uguali. In Germania non c’è nessuna emergenza casa mentre da noi ancora esiste un ampio bisogno casa.  Lo Stato italiano, a fine secolo scorso, ha smesso di fare case per i poveri e i disagiati. Le domande agli Enti per la Casa (ex Iacp, oggi Aziende Regionali) di famiglie che rientrano nei requisiti previsti dalla legge e con diritto all’alloggio sono oggi oltre 650.000, ma questi Enti non hanno nessuna possibilità economica di fare case nuove, non vengono finanziati.  Si stima che ce ne siano almeno altre 350.000 di senza casa e in condizioni di disagio. Ci sono quindi circa 1 milione di persone che aspettano invano dallo Stato una casa. Da alcuni anni lo Stato ha introdotto un fondo di sostegno per contribuire a pagare il fitto alle famiglie bisognose (circa 10 mil./anno )
 ma sembra che dal 2015 tale contributo non è stato più finanziato. Quindi lo Stato ha quasi smesso completamente ogni politica sociale verso le famiglie bisognose senza casa. In fondo siamo tornati a com’era nell’Ottocento, il cui motto liberale era: lo Stato non finanzia, lo Stato guida.  Oggi le famiglie italiane sono proprietarie di casa per circa il 75% (al Sud e a Napoli poco oltre il 50%), ma quelle in povertà assoluta insieme quelle che sono solo in povertà sono circa 5 milioni, quasi un milione in più del 2017. 
(Le famiglie in povertà assoluta sono quelle che in due persone spendono meno di 1000/mese; quelle quasi povere, spendono 1100/mese; in tre persone 1400/mese, cfr.: https://www.ilfoglio.it/cronache/2017/03/07/news/italia-legge-contrasto-poverta-senato-fact-checking-124102 )  
Non tutto fila liscio nei meccanismi di assegnazione delle poche case che ancora si costruiscono, gestite dalle Aziende casa e dai Comuni  coi programmi  chiamati “ Contratti di Quartiere”.  Per esempio come sapete, le Vele sono destinate alla demolizione salvo la Vela B, ma queste  case sono state occupate in parte  abusivamente e  il Comune  ha trovato  con difficoltà e lentezza di anni,  nuovi alloggi  per gli occupanti. Ma succede che le case liberate vengono poi rioccupate da altri bisognosi che sperano anche loro in un alloggio comunale.  E’ un movimento di senza casa spesso non legale, qualche volta camorristico, ma la base dei "senza casa" è cosi ampia a Napoli che sembra non si esaurisca mai. 

L’intervento pubblico per dare case ai lavoratori è nato a cavallo tra Ottocento e Novecento, per merito dei filantropi e dei liberali che con Giolitti hanno emanato la legge Luzzatti nel 1903.
Per tutto il secolo scorso lo Stato,  attraverso la legge Luzzatti,   ha costruito case per lavoratori poveri, contribuito finanziariamente alla costruzione  di case  a riscatto per ceti medi poveri e per gruppi di famiglie  che hanno costituito società cooperative. L’Italia non è stata generosa di case con i poveri e con i lavoratori; il patrimonio pubblico italiano ammonta oggi a circa il 7% del patrimonio totale delle case, mentre, per esempio in Germania e in Francia, ammonta a oltre il 20%.
La situazione oggi è che, cambiate le condizioni socio economiche del paese, vengono richieste  soprattutto case in affitto, e non case in proprietà perchè l’affitto è più  sostenibile dal nuovo  tipo di lavoro,  non stabile e precario , e dai molti nuclei monofamiliari oggi esistenti. Certo possedere oggi una casa pubblica è una fortuna, fitti molto bassi e una casa per sempre! Ma, come detto, c’è ne sono veramente poche. Il mercato immobiliare privato ha talmente aumentato i prezzi  di acquisto dalla crisi dei mutui occidentali del 2008, che per comprare una casa oggi servono venti anni di reddito da lavoro normale; come dire,  serve il reddito di metà vita lavorativa !

In questo Corso su Social Housing e periferie, ci occupiamo di case per non ricchi e non benestanti, oggi poco aiutati dallo Stato, il quale preferisce dare loro un reddito di cittadinanza (o d’inclusione) senza chiedere contropartite. Questa appare una politica che non sviluppa occupazione, diseducativa, anti-sociale e senza futuro. In Germania esiste il reddito da occupazione: a tutti i giovani tedeschi, le aziende propongono un lavoro  retribuito per un periodo limitato di tempo, che lo Stato poi risarcisce alle aziende stesse.
Cosa si può fare all’Università per sostenere il miglioramento delle condizioni  abitative dei non abbienti: quali interventi sono  possibili ?
Dice Platone che per aprire i cervelli alle persone bisogna prima aprire i cuori con l’amore per il prossimo!  Credo che voi avete come studenti di architettura, ovvero il periodo storico nel quale vivete vi incarica di una missione sociale: non solo sviluppare la bellezza nelle città,  ma anche contribuire al miglioramento abitativo dei meno abbienti. Riqualificazione delle periferie e fare case per migliorare la vita dei bisognosi.  Sono questi due ideali che, come architetti, vi dovrebbero guidare nella vostra formazione e nella vostra attività per tutto questo secolo: case confortevoli, durevoli ed economiche, e ben collegate al centro città.  

Lo Stato Ottocentesco, attento ai confini, alla costruzione della nazione, alla difesa della religione di Stato, alla moralità pubblica, alla formazione dei cittadini come comunità con lingua e ideali comuni (patriottismo), non costruiva case per il popolo   cosi come non si occupava della sua formazione e della sua salute (cfr. i racconti Charles Dickens per Londra. Oliver Twist).   Delle case e delle condizioni di vita dei lavoratori  se ne occupavano   solo delle Associazioni private di persone  filantropiche, di  cultura liberale o cattolica  e soprattutto ricche,  oppure, al Nord Italia là dove si sviluppava l’industria , alcune grandi  aziende  manifatturiere  costruivano  villaggi operai  per i propri  dipendenti  (Crespi d’Adda, Leumann, Rossi, poi nel novecento Torviscosa, Olivetti, Italsider, etc.; https://initalia.virgilio.it/archeologia-industri, ale-in-italia-i-villaggi-operai-4422).
Queste Associazioni private, di filantropi e nobili, d’ingegneri sanitari, e di Imprese con politiche sociali, cercavano di migliorare le peggiori situazioni di vita tra i lavoratori poveri: promiscuità abitativa (tre/quattro persone per stanza), alloggi senza soggiorno, mancanza d’igiene, senza WC interni, e con scarsità di acqua corrente, mancanza di sole e di aria. A Napoli, cosi come l’Anonima Cooperativa a Bologna, l’Umanitaria a Milano, la Soc. Torinese per le abitazioni popolari, realizzavano case economiche per i lavoratori.
Marino Turchi, a Napoli, ha costruisce nel 1870 circa l’edificio della Filantropica sulla via per Capodimonte; affittava a lavoratori con buona moralità pubblica (senza risse, ubriachezza, furti, etc), con reddito da lavoro, figli a scuola e non in strada.

Lo Stato Novecentesco, nella prima metà del secolo si fa carico della casa popolare ma continua la politica liberale di investire assai poco. Attraverso banche e altri Enti concede terreni non di valore, tutti posti lontano dal centro e contribuisce ad abbassare gli interessi sui mutui che gli Enti contraggono. Anche attraverso le Esposizioni Universali e le esperienze inglesi, il dibattito sulle migliori soluzioni per le case dei lavoratori ebbe una discreta diffusione, interessò politici e ingegneri. I modelli oscillavano tra casette unifamiliari, palazzine a più piani, città –giardino, edifici a blocco tipo Mietkasernem.  L’arrivo del fascismo esautora i Comuni, accentrata la gestione a Roma nei Ministeri. Lo Stato aumenta i finanziamenti e dirige gli investimenti su case per il pubblico impiego statale alle quali da uno stile riconoscibile (giustizia, polizia, corpi militari, etc), tralasciando di costruire per i ceti meno abbienti.   
Nel secondo dopoguerra lo Stato cerca di dare una casa a tutti, ma ci riesce poco.   Finanzia le case popolari ma i contributi maggiori sono a carico dei lavoratori e delle aziende, con un prelievo direttamente in busta paga, e a carico, almeno fino al 1970. Nascono cosi i complessi di case messi insieme a formare quartieri, tutti fuori città, da 2000 a 5000 e 10.000 abitanti. Si forma una periferia pubblica che orienta anche la residenza privata.  Gli Enti per la casa, l’Ina in particolare,  tentano di fare case e servizi , ma non hanno i mezzi finanziari e realizzano i servizi solo dove possono e con molto ritardo non ci riescono. L’urbanistica non si occupa di disegnare la periferia, che è lasciata in balia delle poche regole edilizie comunali e all’arbitrio almeno fino al 1962 (legge 167sull’esproprio dei terreni per pubblica utilità). Intanto Ina Casa e Gescal fanno quartieri su misura che funzionano bene con encomiabili attenzioni sociali.   Poi lo Iacp, spinto dalla politica, prova a realizzare in poco tempo grandi edifici e ampi quartieri per alloggiare masse di poveri, ma i risultati sono pessimi.  Intorno agli anni ottanta i finanziamenti per le case pubbliche finiscono, lo Stato passa alle Regioni la materia dell’edilizia pubblica, nel giro di qualche anno ancora, si ferma completamente: le Regioni non investono in edilizia pubblica e i finanziamenti rimasti, sono dirottati altrove. 
Il Social Housing
Nel nuovo secolo si evidenziano modifiche sociali considerevoli, formatesi nel corso degli anni precedenti: soprattutto si affermano i valori dell’individualismo e della ritirata sociale dello Stato che disincentivano l’intervento pubblico in questo settore.
Nuove questioni culturali s’incentrano sulle conseguenze di un ampliamento del potere dell'individuo  ed un riduzione  del sentimento sociale: più poteri e responsabilità  all’individuo meno poteri e responsabilità allo Stato che in fondo minano il cosi detto bene pubblico   Ci sono  un inizio di  liquefazione dello Stato assistenziale e autoritario  del Novecento , una de-responsabilizzazione e imboscamento del potere, una responsabilizzazione del futuro di ogni individuo  che può contare solo su se stesso. Da una parte aumenta la percezione dell’insicurezza sociale (minore sicurezza fisica personale e lavoro instabile), dall’altra si allarga l’illusione della libertà individuale senza confini: c’è uno scambio, maggiore libertà individuale minore sicurezza sociale e questo scambio riduce e svilisce tutto ciò che è pubblico, anche lo spazio pubblico.   
In Italia, paese molto fragile e poco unito, uno Stato debole accumula dal 1970 un debito pubblico progressivo, che dal 37% del Pil arriva, alla fine dell’intervento pubblico nel 1990, quasi a triplicarsi. Tale debolezza economica contribuisce a metterci alla mercé dei venti di borsa e delle aspettative di guadagno  degli acquirenti dei nostri titoli pubblici (attualmente lo Stato paga ai privati compratori dei suoi titoli, tra cui molti italiani,   circa 65 mld. di euro l’anno).
L’insieme di questi nuovi valori e la crisi economica dei mutui del 2007 contribuisce  alla riduzione/cessazione in Italia di ogni attività di costruzione di case pubbliche , mentre le case private costruite in grande numero rimangono invendute. C’è un grande invenduto nazionale, sia di residenze sia di terziario, insieme a fallimenti di aziende che vengono rilevate dalle banche creditrici che si  ingolfano di case a garanzia dei mutui  ( Il premier Renzi propose nel 2017  di comprare sotto costo dalle banche 20.000 alloggi già fatti ma la proposta non è diventa legge) .
Termina cosi l’edilizia pubblica e inizia l’edilizia sociale privata che di tanto in tanto fa operazioni immobiliari con reddito calmierato in accordo coi Comuni.  Essa si basa sui Fondi Immobiliari bancari che finanziano la costruzione del S.H.. Si costruiscono case per ceti medi impoveriti dalla crisi e non per famiglie disagiate (le case non sono per i poveri, ai quali viene dato dal Governo  un bonus casa e non più case) . Sono famiglie e persone che cercano case in fitto soprattutto, perché gli acquisti sono troppo onerosi (una casa pubblica ha un fitto di 100 euro/mese, una casa di Social Housing ha un fitto mensile di almeno 500 euro, una casa privata in una grande città circa 800 euro). Ma  le case realizzate sono cosi poche (finanziati circa 4300 alloggi),   che non scalfiscono la richiesta sociale di abitazioni economiche che ammonta oggi a 600.ooo domande. Abbiamo un disagio abitativo che deriva dalle poche case pubbliche costruite nel 900 (circa il 5% del totale a fronte di una media 25% di paesi come Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Olanda, etc.) e dal  fatto che gli alloggi pubblici non hanno nessuna mobilità (cambio e sostituzione di inquilini), e che le occupazioni  vengono tollerate.

Il Piano Casa del 2008 (DL 112/2008) ha previsto l’intervento privato, o pubblico-privato, nella costruzione di case sociali, cioè a prezzi calmierati. Sono previste tre categorie di finanziamento pubblico: L’edilizia sovvenzionata è quella a totale carico dello Stato (ormai quasi azzerata), l’edilizia agevolata dove si ha un cofinanziamento pubblico, l’edilizia convenzionata, che è fatta da privati con contributi fiscali pubblici o di tipo urbanistico.
Il Social Housing è un’edilizia sociale di mercato, cioè privata con contributi pubblici; ma spesso in Italia gli interventi contengono tipi diversi finanziamenti statali, mischiati insieme, le cui case vengono chiamati impropriamente Social Housing.  
 La legge Piano casa 2008 ha creato i Fondi Immobiliari bancari Si prevede che i Fondi insieme con altri soggetti, investono in edilizia sociale privata a certe condizioni. Il meccanismo si basa sul fatto che i Comuni o le Regioni, per rispondere al disagio abitativo, prevedano negli strumenti pianificatori, aree da destinare a nuova edilizia sociale o immobili da riqualificare, e da destinare a coppie, anziani, giovani, persone in co-housing. In un rapporto di partenariato pubblico privato, utilizzando fondi nazionali, regionali o comunali, si stringano accordi con i privati ( Cooperative, Fondi Immob. , Imprese, Associazioni no profit) per costruire  su aree  pubbliche o riqualificare  edifici pubblici. L’accordo prevede case da vendere a libero mercato, case da affittare a prezzi calmierati,  ed anche case di proprietà pubblica ERP da fittare o vendere.
Le esperienze migliori oggi si trovano soprattutto a Milano (via Cenni, via Gallarate, via Civitavecchia) , ma anche a Torino, Parma e Bolzano ,   in quei Comuni si sono attivati, facendo anche gare di progettazione per realizzare  interventi di SH.

 I caratteri del progetto architettonico del Social Housing
Da una breve panoramica degli interventi attuali, sul piano dell’urbanistica e dell’architettura, si può dire che considerando che gli interventi prevedono costruzione, gestione e redditività per gli alloggi privati in fitto o vendita (si considera circa 3% annuo+ inflaz.) Emergono dei punti forti che si possono sintetizzare: molta attenzione alle questioni ambientali ed energetiche come fotovoltaico, termico solare, pareti isolanti, abbattimento rumore, riduzione consumo acqua, aumento del verde e della mobilità pubblica. Inoltre le società di gestione cercano di creare tra gli inquilini/proprietari un mix sociale il più ampio possibile, inserire larghe zone di parco, progettare parti degli interventi con alloggi piccoli e flessibili per aggregazioni diverse, prestare molta attenzione alla morfologia  non uniforme dell’intervento, e alla forma dell’edificio con dettagli qualificanti, ed infine  attenzione al basso costo di costruzione e di manutenzione.   
In sintesi le forme di finanziamento in partenariato pubblico/privato e i modi di utilizzo degli alloggi, sono cosi diversi che il successo di un intervento di Social Housing dipendere soprattutto dalla capacità dell’Ente pubblico di articolare proposte e accordi e fare da regista dell’operazione.    
Cfr.: Sergio Stenti, Fare quartiere, Clean, Napoli, 2016


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