L’università riformata è giunta ora a compimento, e mentre ancora si
discute di quale sia il bilancio della penultima riforma, quella Berlinguer del
1999, già iniziano le scommesse sulle conseguenze dell’attuale riforma Gelmini:
cosa cambia e per chi.
La riforma Berlinguer era nata per rispondere meglio alle nuove esigenze
del mercato che richiedevano titoli intermedi oltre la tradizionale, laurea
quinquennale; l’invenzione del 3+2 prevedeva una laurea triennale, completa ma
generalista, e un biennio di specializzazione a orientamento
professionalizzante.
Ciò sembrava incontrare le richieste del mondo del lavoro in un orizzonte
di sviluppo dell’economia; ma né il
mercato né l’economia si sono evolute in questo senso e nemmeno l’università ha fornito quelle lauree
professionalizzanti che si prevedevano.
Nel 2010 la riforma Gelmini ha invece
agito sulla struttura dell’università con lo scopo di una maggiore efficienza, risparmio
dei costi e razionalizzazione dell’offerta formativa.
Mentre la vecchia organizzazione in Facoltà e Senato accademico è stata ristrutturata
in modo dirigistico, quasi nessuna modifica è stata proposta sul piano dei
contenuti della formazione se non una scarsa premialità (10% del FFO) per la
ricerca, da assegnarsi all’Ateneo e non al singolo ricercatore.
Unificata positivamente didattica e ricerca dentro i nuovi Dipartimenti, è
stato assegnato al nuovo organo interno
Anvur il controllo di qualità per la sola ricerca mentre nessun tentativo è
stato fatto per la qualità della didattica.
Appare evidente, dall’enfasi messa sulla ricerca, il desiderio, più
ideologico che concretamente organizzato, di incentivare una attività collaterale come la ricerca che è la parte
debole della formazione. Ma, dimenticando di valutare la didattica, si continua a
sottovalutare che il compito principale
dell’Università è quello di formare laureati qualificati e non conseguire
brevetti, attrarre finanziamenti per
ricerche applicate e pubblicare articoli su riviste scientifiche accreditate.
Questa impostazione appare intrisa di molta retorica: basti pensare alla
scelta di mantenere il valore legale del titolo di studio che, equiparando e
rendendo identiche buone e cattive facoltà, non premia né la ricerca né il
merito.
Sarebbe anche opportuno fare un po’ di chiarezza sulle specificità delle attività
di didattica e di ricerca, sui loro differenti obiettivi che, è bene
ricordarlo, non sono uguali o facilmente sovrapponibili: la didattica richiede
coordinamento funzionale e aggiornamento
per migliorare le chances di lavoro
dei laureati; la ricerca chiede
sostegno e organizzazione per competere
con altri centri di ricerca e attrarre
finanziamenti esterni.
L’istituzione dell’Anvur è un lodevole passo in avanti per portare la
valutazione della ricerca ad incidere sullo sviluppo dell’Università sia migliorando i docenti sia migliorando gli
atenei. Potrebbe essere l’inizio di un
processo di valutazione che conduca oltre il livello dell’auto-valutazione e ci
avvicini ai valori concreti espressi dal mercato internazionale della formazione. Sarebbe necessario però superare almeno la
composizione tutta accademica dell’Anvur ed aprirla a valutatori esterni.
Ora, in un quadro generale che vede
la riduzione dei fondi, la contrazione dei docenti per un sostanziale blocco
del turn over e non aggiornamento delle conoscenze, sparuti incentivi alla
trasformazione e perdita di valore della laurea, ci vorrebbero riforme meno
retoriche e più realiste per
migliorare l’università e farla
avanzare di qualche posto nel ranking internazionale dove il primo ateneo
italiano , Bologna, si situa al 195°
posto.
Architettura come scuola
Le scuole di architettura soffrono
innanzitutto di un gigantesco affollamento di laureati che è andato oltre ogni ragionevole
rapporto tra domanda e offerta e che ha cominciato a farsi sentire nel calo
delle immatricolazioni scese in otto anni del 15%, e dovute a diminuzione di
occupazione e riduzione di guadagni (140.000 iscritti agli Ordini, più del
doppio della media europea). Continuiamo
comunque a laureare circa 6000 architetti l’anno nonostante l’alta percentuale
di abbandoni scolastici (circa il 30% degli immatricolati) .
Ogni ateneo ha introdotto la formula del 3+2 in modo diverso senza
rispettare l’impostazione originaria della riforma (un solo triennale di base
con molte specializzazioni biennali) e spesso senza eliminare il tradizionale
corso quinquennale che è frequentato solo dal 25% degli studenti italiani (il
75% frequenta il 3+2). Pochissimi si
fermano alla triennale, l’85% continua con le specialistiche per completare gli
studi, dimostrando che l’assunto della
riforma Berlinguer che il titolo
triennale ( più un diploma che una laurea) serviva per coprire posti intermedi
nel mondo del lavoro, non si è
verificato. Salutari esperienze pratiche, durante la
laurea, introdotte con i tirocini esterni hanno avuto grande successo, anche se
il monte ore ad essi riservato ( 150/200 ore in cinque anni ) potrebbe
utilmente essere aumentato. Non sono stati previsti, cosi come per altre
professioni, tirocini obbligatori post laurea per l’iscrizione agli Ordini,
lasciando inalterato, anzi incredibilmente complicandolo, l’inutile e
vessatorio esame di stato. Sul rapporto poi tra valore legale del titolo di
studio ed esame di stato ci sarebbe anche da capire a cosa serve mantenere
entrambe le condizioni per la professione che, notoriamente, non verificano le conoscenze
minime del mestiere.
Infine il terzo livello di formazione, masters e dottorati, a parte alcune eccellenze,
soffre di poca specializzazione e di poca partecipazione (per entrambi la
percentuale di laureati frequentanti è ad una sola cifra, 7/9 %) e non sembra
migliorare le possibilità occupazionali . Soprattutto i dottorati soffrono per
diminuzione delle borse di studio e per un uso del titolo ridotto solo al campo
accademico. Queste specializzazioni post
laurea infatti non sono ancora riconosciute
come titoli qualificanti nel mondo del
lavoro come invece succede dovunque in
Europa.
La formazione
I punti deboli dell’attuale
formazione possono essere sintetizzati in tre parole: generalista, professionalizzante
e incompatibilità.
La formazione non è chiaramente impostata su una delle due scelte,
generalista o professionalizzante, non riuscendo quindi a guadagnare i meriti e
ridurre gli svantaggi di entrambe.
Nella grande maggioranza prevale un orientamento generalista frutto di una tradizione
culturale che in passato ci ha consentito grandi vantaggi, ma che oggi, per le (ex)
facoltà professionali, non è più sufficiente.
Ma cos’è una formazione generalista?
Una formazione non specialistica, dove viene data importanza ai
“fondamentali” come nella tradizione umanistica, ma che non qualifica per il
lavoro e che necessita di ulteriore apprendimento: il terzo livello
universitario.
Una formazione siffatta può produrre un laureato colto ma non può produrre
una figura tipo “coordinatore della progettazione” che anzi richiederebbe, in
un team progettuale, larghe competenze più che ampia cultura. Salvo che non si ritenga che il lavoro
progettuale inizi e finisca con l’elaborazione del "concept"
demandando ad altri lo sviluppo esecutivo.
La formazione professionalizzante è invece più chiaramente orientata al
mestiere e alla sua pratica, con uno spostamento della figura dell’architetto:
da creatore unico a collaboratore in gruppo. Nel rapporto cultura umanistica saperi tecnici
lo sbilancio dovrebbe andare all’acquisizione di competenze per il mestiere e in
questa logica si dovrebbe lasciare al terzo livello, al dottorato di ricerca, il
compito di un’acquisizione critica, di alto livello, delle conoscenze.
Il progetto di architettura, lo specifico architettonico è sempre stato l’opera
e non il saggio scritto; non gli articoli ma i progetti ne sono, infatti, lo agire
più importante ed è evidente che il centro della sua formazione deve essere rappresentato
dalla capacità di saper progettare e di farlo in team.
Infatti, è nel progetto che la ricerca
in architettura trova il suo
fondamento e il suo scopo.
Ma si può imparare a progettare con docenti che non hanno mai costruito
nulla o calcolato nessuna struttura statica
antisismica ?
Sembra un paradosso del nostro sistema universitario il cui fine, mettere
tutte le energie della docenza al servizio dell’Istituzione, si è ribaltato nel
suo opposto, un invecchiamento delle conoscenze e delle competenze.
Nell’Università i docenti che fanno
professione sono considerati insegnanti di serie B e non fanno carriera, non
accedendo ai ruoli dirigenziali; le loro opere, infatti, non sono valutate come
ricerca e costoro sono messi ai margini della “governance”.
Si assiste purtroppo alla svalutazione di ciò che è il focus della
formazione, la qualità del progetto architettonico inteso come luogo privilegiato
d’incontro collettivo tra la didattica e la ricerca applicata.
C’è una tendenza di pensiero accademico che ritiene che tutte le discipline
siano quasi sullo stesso piano, uguali ed equipollenti e che tutte formano in
ugual modo l’architetto. Tale tendenza
ha spodestato il progetto di architettura dalla centralità della formazione, e
ha facilitato la sua sostituzione con un diverso concetto di progetto, il
progetto tecnologico.
Perdendo la centralità del progetto, la formazione si è come liquefatta suddivisa
in tante sub-discipline che non restituiscono quella ricerca di senso che ha
sempre caratterizzato il progetto architettonico.
Il vecchio tripode della formazione, progetto, storia e struttura che
sosteneva la gerarchia degli studi fino a qualche decennio fa, è poi diventato quadripode,
con l’aggiunta di tecnologia, eterea ed evanescente materia nata da una costola
di tecnica delle costruzioni.
Ma, svincolatasi successivamente da ogni fedeltà
storico-critica relativa al mondo
delle costruzioni e liquefattasi nell’Università ogni gerarchia contenutistica,
la tecnologia ha intercettato la pretesa
contemporanea della “tecnica” di scrollarsi di dosso ogni scopo esterno a se stessa. Cosi, accogliendo
tutte le istanze di ammodernamento prodotte
dal mercato e dal sociale e legate alla sostenibilità ambientale
ed energetica, il sapere tecnologico si
propone come autonoma progettazione
tecnologica. Da mezzo si sta
trasformando in scopo secondo la classica eterogenesi dei fini.
D’altro canto una riflessione sulla divisione in tante sub discipline in
cui si è frantumato il sapere architettonico oltre il tripode tradizionale, sarebbe
quanto mai utile per ripensarne i contenuti.
Ciò che emerge nella formazione attuale è, infatti, una certa indifferenza
alla ricerca di senso dell’architettura, ai rapporti tra contesto, costruzione,
linguaggio e uso che l’ha caratterizzata fino ad ora. E tale condizione, che
oscura le domande sul valore civile che essa dovrebbe e potrebbe svolgere, è
facilitata anche dall’impossibilità di sperimentare ciò che si progetta:
L’incompatibilità tra insegnamento e professione, infatti, blocca ogni
avanzamento culturale dei docenti e ogni miglioramento della formazione. Enti
europei come l’Unesco e l’Uia hanno sentito il bisogno già nel 2000 di raccomandare
alle università di selezionare docenti di architettura che abbiano uno stretto
contatto con la pratica professionale ovvero una solida esperienza.
Codificata nel 1996 ma iscritta da tempo nelle nostre leggi come obbligo per tutti i dipendenti pubblici con punizioni e
sanzioni ai trasgressori, l’incompatibilità è una vecchia
ideologia statalista che vede il privato come possibile corruttore degli interessi collettivi che l’Università rappresenta.
Il paradosso dell’incompatibilità è che un’esigenza conclamata nel clima
sessantottino della lotta al professionismo, contro la “riduzione culturale”
come si diceva allora, si sia ribaltata nel suo opposto, bloccando ogni
sviluppo e aggiornamento dei saperi accademici.
Renato Nicolini sosteneva che gli unici movimenti di riforma
dell’Università erano stati due. La contestazione del 1966, sfociata poi nel ‘68,
e la Tendenza nel 1980, che inventò il rapporto morfologia tipologia e
l’architettura della città contro le fughe nella grande dimensione o nella tecnologia.
Eppure questi movimenti hanno finito per incoraggiare una deriva anti-professionale
che alla fine ha ribaltato quelle richieste culturali nel loro opposto:
paralisi e declino dei saperi accademici con esaltazione dello scrivere
piuttosto che del progettare e del costruire.
Per arrestare un declino di contenuti che acquista velocità ad ogni riforma
governativa che vuole regolare dall’alto, con centralismo e dirigismo e senza incentivi,
tutte le diverse discipline dentro le
Università, si dovrebbe sperimentare un qualche
modo per rendere centrale e collettivo il progetto di architettura.
Tra le tante ipotesi possibili, la
soluzione dell’intra-moenia (come per i medici) potrebbe essere un passo su cui
val la pena interrogarsi. Una progettazione interna alle ex Facoltà, regolata e
calmierata, in grado di competere con gli studi privati nelle commesse
pubbliche.
(E-journal, n. 16/2013 pag.80-87 , www.uam-productions )
Nessun commento:
Posta un commento