sabato 9 febbraio 2013

La distanza tra università e lavoro


I dati del Censis sulla società italiana 2012 mettono in rilievo il  trend negativo delle iscrizioni all’Università che si accompagna ai dati sulla  recessione  economica del nostro paese.  Le immatricolazioni all’Università sono calate del 6,3%, confermando una progressiva diminuzione degli studenti che va avanti per lo meno dal 2007.  Tale contrazione generale delle iscrizioni non si riflette in modo omogeneo su tutte le lauree perché quelle tecnico-scientifiche aumentano a scapito di quelle umanistiche.
Accanto a questo declino e trasformazione degli studi superiori, si assiste nelle scuole medie ad  un aumento degli  iscritti alle scuole professionali ( +2%)  mentre  diminuiscono quelli ai licei,  per cui oggi la maggioranza degli studenti medi si colloca nelle  professionali (52% del totale).
L’insieme di questi dati mostra che c’è un bisogno di lavoro ed una disillusione per l’avanzamento sociale dei laureati  che si sta diffondendo nel  nostro paese come un vento debole ma costante. Si privilegia la ricerca del lavoro alla ricerca del titolo.
I cambiamenti nell’università dovuti alle due principali riforme, quella Berlinguer del 1999 e quella Gelmini del 2010, non hanno migliorato le prospettive pratiche alla schiera dei laureati italiani. Le riforme, infatti, si sono occupate principalmente di organizzazione del sistema universitario e non della qualità della formazione impartita.
Formule come il 3+2, o Dipartimenti al posto di Facoltà,
se hanno migliorato (ma i bilanci sono contraddittori),  ovvero possono migliorare,  l’organizzazione e razionalizzare  disfunzioni non hanno  certo inciso  sull’aggiornamento e il rinnovamento necessario dei contenuti della formazione.
Non ci sono incentivi alla didattica e gli incentivi alla ricerca  non sono individuali, ma vanno alla struttura dell’Ateneo contando solo il 10% del fondo di finanziamento.
In sostanza si sconta un mancato aggiornamento dei saperi rispetto alle domande sociali e al mercato del lavoro. Ma a soffrir di più, credo,  sono  i gruppi di lauree  che insegnano mestieri,  che preparano  cioè ad una professione ( ingegnere, architetto, geologo, avvocato, agronomo,  etc.)  alle quale serve, oltre un sapere storico-critico e teorico,  una pratica diretta, una  sperimentazione nel vivo delle risposte  alle domande  della società  che non possono tutte essere rimandate  al dopo la laurea.
In quest’ambito di lauree, la formazione accademica oscilla tra un obiettivo generalista e uno specialista senza aver scelto esattamente e chiaramente quale fine darsi e quale politica di differenziazione tra atenei perseguire.  
Ne consegue una preparazione che spesso non è sufficiente al laureato ad inserirsi  positivamente nel mercato del lavoro:  una preparazione incompleta che sembra richiedere un terzo livello di formazione ,  attraverso  masters  o  tirocini  esterni .
Per la verità il 3+2 aveva come obiettivo di realizzare un triennio generalista ed un biennio specialistico orientato alla professionalizzazione  ma,  pur nella situazione  variegata dei nostri atenei,  il rinnovamento verso la  professionalizzazione non c’è stato.
Sono mancati gli incentivi (premialità e carriere) ad una trasformazione della conoscenza,  più che in maggior sapere,  in un saper fare che nessuna delle due riforme  ha previsto  .
Siamo eredi di una cultura idealista che fatica a trasformarsi in tecnico-scientifica ed a  confrontarsi con uno scopo pratico. Prendiamo per esempio la questione dell’incompatibilità tra professione e  docenti.
Com’è pensabile che mancando una pratica  professionale ai docenti, perché vietata,  si possa bene insegnare un mestiere ?
Come si può insegnare a progettare un edificio senza averne mai costruito uno o come si possono calcolare le strutture statiche senza aver mai realizzato un edificio antisismico? E’ un mistero della fede, oscuro alla ragione.  Solo ai medici è consentita un’attività professionale intra-moenia indispensabile allo sviluppo delle competenze .
Certamente non tutti i docenti mancano di esperienza pratica e non tutti gli atenei la proibiscono tassativamente, ma coloro ai quali è affidato il rinnovamento dell’università ne sono privi.
Una legge ipocrita del 1996, proibendo con sanzioni e multe, attività lavorative per i pubblici dipendenti la estese anche ai docenti universitari consentendola solo a coloro i quali non avrebbero potuto fare carriera accademica.  Gli effetti perversi di questa legge si riverberano negativamente sull’insegnamento che è  logicamente più formale che basato su solida esperienza.
Senza un bilancio condiviso della riforma del 3+2, i cambiamenti della legge Gelmini sono destinati ad aprire altre sperimentazioni su formule e regole i cui esiti sembrano insufficienti alle richieste del mondo del lavoro.
Tra i tanti propositi iniziali del governo Monti c’era anche quello di valutare la possibilità dell’abolizione del valore legale del titolo di studio che avrebbe costretto  gli Atenei a competere fra loro facendo emergere le diverse qualità  esistenti sia della ricerca sia dei  Corsi di Laurea.
Il governo accantonò subito ogni proposito di nuovo cambiamento  sopendo  le istanze di una cultura privatistica  che guardava l’Università in modo differente. 
Ma  innescare la competizione fra atenei e il  riconoscimento  pieno del merito per ricerca e didattica-  riconoscere cioè  le università  migliori e peggiori- sarebbe già una scelta anti recessiva.   
Forse non è un gran male la diminuzione degli immatricolati, anche se l’Italia ha un basso numero di laureati rispetto alla media europea (20% contro 34%).    Ma è  soprattutto  un male il fatto che a fermarsi  prima  siano gli studenti  di famiglie con meno capacità economiche,  sulle quali , come per un  ciclico ritorno al passato,  incombe una selezione per censo.  
Repubblica Napoli 18.12.2012

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