Facciamo delle Vele un reperto archeologico
ROVINE giganti distese mezze morte su terreni vuoti si stagliavano
all' orizzonte di Secondigliano. Erano edifici ciclopici che i circa
seimila abitanti avevano odiato e avevano abbandonato e poi si erano
intestarditi perché non fossero mantenuti in vita: volevano solo che
scomparissero tante erano le sofferenze che ricordavano loro quando le
avevano abitate scappando dai vicoli del centro storico di Napoli e non
solo. N ell' ultima fase di vita quegli edifici diventarono luogo di
fabbricazione e distribuzione di droga, covi per nascondere partite al
consumo, nascondigli dove scappare e seminare gli inseguitori. Eppure
non era facile demolirle, tre vennero giù con difficoltà ma altre
quattro rimanevano e nessuno sapeva cosa fare. Troppo ingombranti,
troppo calcestruzzo, troppo ferro e poi dove seppellirle? Le discariche
erano tutte già colme di rifiuti urbani che si ammassavano nelle
larghe vie. Ma il tempo sgretolava il calcestruzzo, le muffe segnavano i
muri, l' acqua corrodeva le strutture, e gli intellettuali si
interrogavano: ma che cosa farne? Tutti convenivano: non erano edifici
da abitare ma erano però incredibilmente impressionanti, di un
attraente scenografico, fuori dimensione: mai vista una cosa simile
dopo l' Ospizio dei Poveri di Fuga. Perché perderle quindi? Da
ecomostro inabitabile divennero un set cinematografico, addirittura un
racconto, uno scenario dell' orrido; droga, camorrae letteratura
allargarono di molto la loro fama negativa, simbolica e di successo. La
lenta rivincita della legalità si accompagnò pari passo con la
smobilitazione degli abitanti e le difficili demolizioni; le piazze
dello spaccio durarono ancora un po' , poi si esaurirono e si
spostarono altrove. Da ruderi di un sogno di modernizzazione divennero
un' icona memorabile che colpì l' immaginario, segno di un esperimento
estremo d' inabilità, di un' epoca alla ricerca cieca di una città
altra di cui non avevano bisogno. Insomma si trasformarono da residenze
a immagine dell' estremo, a icona, non certo a monumento. Non c' era
nulla da tramandare, ma solo da vedere: una rovina del passato, quasi
morta, ma da conservare come segno. Che cosa altro è un' icona se non
un' immagine? I giganti distesi piacevano, venivano bene nelle riprese
televisive, uno scenario estremo, sotto casa, compresi quegli interni
così somiglianti alle carceri piranesiane. Intere scolaresche andavano
in gita con i professori a vedere le case dei tossicodipendenti e
quelle delle famigliole che si arrangiavano nella confezione delle
dosi. Erano dei "droga tour" che spopolavano. Gli architetti avevano
voluto sperimentare idee nuove a cavallo del ' 68. Utopie sociali e
utopie tecnologiche e lotte per la casa che divennero lo sfondo
ideologico e politico, il quadro entro cui alcuni spingevano per
applicare nuovi processi industriali alle costruzioni per il popolo:
era un malinteso imperativo della modernità. Ressero poco più di
quindici anni quegli edifici a tenda, poi furono dismessi. Non era
chiaro che cosa si dovesse fare con quei ruderi: seppellirli sottoterra
o farci crescere rampicanti. Oppure riusarli per altro scopo ove ce ne
fosse uno chiaro, venderli ai privati, farci facoltà universitarie,
ospedali, atelier, case per lo studente. Tutte le più disparate idee
non trovarono però strade concrete per affermarsi. Il Comune, che non
era riuscito a gestire quei transatlantici quando erano in attività,
non aveva certo capacità finanziaria e organizzativa per guidarne le
trasformazioni e le abbandonò. Le Vele pian piano si degradarono
fisicamente, si sbriciolarono, l' acqua le faceva marcire, l' erba
cresceva e nessuno poteva avvicinarsi: emanavano un inconfondibile
odore di abbandono. Ma non crollarono, erano stranamente costruite in
modo solido e infatti stettero lì per molti anni.I vecchi abitanti non
riuscivano più a sopportarne la vicinanza e il ricordo ora che erano
diventati inquilini normali, ordinari, proprio loro che non lo erano
mai stati. Si erano accontentati, infatti, di alloggi banali,
disegnati da architetti-burocrati impauriti; però, per loro, tutto era
meglio fuorché ritornare ad abitare nei vicoli anche se moderni. La
commissione incaricata dal Comune non dette risposte tecniche chiare.
Una sola cosa appurò: con i soldi della riqualificazione si potevano
fabbricare tutte le case che si volevano. La riqualificazione costava
molto più del nuovo. Nessuno sapeva se lo Stato avrebbe investito sul
mantenimento di un' icona, data l' aria di crisi che circolava.
Qualcuno si azzardava a considerare le Vele come una specie di Ospizio
dei Poveri di periferia e sperava che in fondo potessero avere la
stessa sorte dell' originale di Fuga: costruito, incompiuto,
abbandonato, ma, dopo qualche secolo, curato e tenuto in piedi anche se
non restaurato. Speravano costoro che potesse accadere alle Vele una
storia simile: le rovine sembravano simili, non si distruggevano. Si
sapeva che le pietre della storia alla fine venivano restaurate anche
se per fini non detti, anche al prezzo di non farci nulla. E così
speravano che sarebbe accaduto anche alle Vele ciò che alla fine, erano
sicuri, sarebbe accaduto a quei 350 metri distesi lungo via Foria, un
senso e una funzione. Gli storici cercavano di applicare ai quei
quattro edifici lunghi centro metri le categorie tradizionali dell'
unicum monumentale ma, nonostante i convegni, rimasero minoranza. Il
rischio "cartolina" alla fine fu evitato, si comprese la differenza tra
un' immagine e una cosa: "Ceci n' est pas une pipe" aveva segnalato
Magritte molti anni prima. Le indecisioni riconsegnarono le scadenze al
tempo che, con la sua solita lentezza, diede delle risposte: tre
edifici debilitati si sgretolarono man mano e uno solo riuscì a
sopravvivere. Mossi a pietà i napoletani lo curarono e non ne permisero
la scomparsa, ma nulla si seppe intorno alla sua destinazione né panni
furono mai esposti alle finestre. Fu un vero atto d' amore e di carità
senza chiedere niente in cambio. Dicevano che una fondazione onlus ne
aveva sostenuti gli altissimi costi, ne era diventata proprietaria e la
stava trasformando, ma a Scampia i lavori dei volontari andavano a
rilento. Bisogna riconoscere che qualche volta accade l' impensabile e
proprio là dove meno te lo aspetteresti. Le scolaresche continuarono ad
andare in primavera a vedere quel gigante solo, sopravvissuto a se
stesso; emanava un' aria triste, non era fatto per il nuovo
allestimento che gli stavano cucendo addosso nell' estate del 2016.
SERGIO STENTI
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