Sergio Stenti
Un piccolo esempio ci illustra bene il livello
cui sta arrivando il bisogno di case pubbliche, una situazione che appare
simile per dimensione a quella di 70 anni fa. A Napoli il Comune ha emesso un
bando per assegnare ai richiedenti in regola con i requisiti, cinquanta case
comunali. Le domande presentate, fatte da nuclei familiari, sono state circa 8000
(Repubblica, 23.10.2023). La sproporzione
tra offerta e domanda ha dell’incredibile: è come se fossimo in una situazione
abitativa simile a quella del periodo post-bellico.
Certamente il Sud sconta una maggiore povertà
rispetto ai dati medi italiani comunque peggiorati dalla pandemia; dati che stimano
5,6 milioni di poveri assoluti e 2,8 mln di poveri relativi e che, nonostante
questo altissimo numero di poveri o quasi poveri, cresce l’occupazione di nuovo
suolo: nuove case, aziende, industrie, depositi, strade etc. un’eliminazione
che dal 2021 ha trasformato circa 1000 ettari di campagna in suolo occupato.
E’
dal 1998 che le Regioni gestiscono autonomamente il patrimonio di case degli
enti nazionali ex Iacp e simili, e da allora, attraverso la creazione di nuovi
enti, gestiscono la manutenzione dell’esistente, il recupero, la ricostruzione ed
eventuali nuovi interventi.
La casa pubblica è un settore dello
Stato piuttosto trascurato da oltre un secolo. Manca un censimento nazionale
delle case popolari e i dati disponibili sono ancora approssimativi: un insieme
ancora confuso di case abitate, locali, case sfitte, abitanti morosi,
irregolari e anche case da riattate il cui numero, si stima, ammonta a circa 55.000
unità.
Lo Stato ha sempre trascurato l’edilizia
popolare e i suoi abitanti affidando la gestione ad enti statali e/o
parastatali non adeguatamente preparati e regolati con norme diverse.
I vari governi succedutisi durante il
Novecento hanno prodotto, lentamente e in ritardo rispetto all’Europa, riforme
sociali che hanno riguardato pensioni, lavoro, sanità e assistenza; ma è solo
dagli anni ’70 che si sono verificati maggiori investimenti nei servizi sociali
ai quali però non è stato attivato un parallelo sviluppo della gestione e della
efficienza degli interventi stessi, come riporta con chiarezza il volume Alle
radici del Welfare all’italiana[1].
Durante un intero secolo lo
Stato ha realizzato poche case pubbliche, circa il 3,8 % del totale degli
alloggi nazionali che se aggiungiamo “ad abundantiam” anche le case cooperative
e le case per ceti medi fatte da enti parastatali, questa percentuale può
diventare circa il 7/8 %, del totale, ancora molto inferiore alla percentuale media
europea che arriva al 17%.
Le case popolari sono state un essenziale intervento pubblico che ha dato un futuro di speranza ai lavoratori e ai poveri. Un sostegno sociale tanto più importante se si considera che la nostra Costituzione non ha previsto tra i diritti, il diritto all’abitazione. L’articolo 47 della Costituzione infatti, ha espresso solo un principio generale delegando alla cura del risparmio popolare gestito dalle banche la possibilità di avere una casa in proprietà. Ma se una persona si trova senza casa, e quindi “non ha un indirizzo”, questa persona civilmente non esiste, e scompare tra gli homeless.
Interventi governativi
Possiamo sintetizzare gli interventi
governativi di case pubbliche in due periodi. Nel primo periodo,1903-1970, le case sono
state una fondamentale risorsa sociale per il paese anche se ma è mancata una visione urbanistica del
contesto e, a livello governativo, non si è ritenuto di costituire un ministero
ad hoc per controllare gli interventi e i risultati. Nel secondo
periodo,1971-1998, gli interventi sono stati attratti dal fascino della grande dimensione che in realtà, nella sua applicazione, ha creato
molti più problemi sociali di quanti ne abbia risolti. Non solo gli interventi
non hanno risolto problematiche abitative ma gli enti gestori, poco competenti,
hanno dimenticato che in questi interventi gli abitanti erano e sono i veri
protagonisti delle case pubbliche ai quali andava e va data assistenza.
Con la legge casa del 1971, il governo di centro sinistra provò a modificare la politica per le case pubbliche con un tentativo civico fatto anche in risposta ai movimenti politici del ’68. Fu emanato un provvedimento illusorio pensando di poter trasformare le case pubbliche quasi in un servizio sociale. La legge liberalizzò progetti e approvazioni, rifondò lo Iacp, approvò una specie di cogestione con gli abitanti che non venne applicata. Sul piano sociale furono favorite le famiglie povere e numerose, alle quali furono dati maggiori punteggi nelle assegnazioni rispetto ad altri richiedenti, ma furono trascurate le inevitabili conseguenze dovute alla disuguaglianza culturale dei nuovi abitanti rispetto alle regole fino ad allora praticate, che inevitabilmente hanno prodotto risultati sociali negativi.
Politiche per la casa popolare
Analizzando le politiche sociali del
Novecento, si può dire che quelle praticate sono state in sintesi di quattro
differenti tipi. Il primo è stato quello liberale, che non prevedeva
interventi statali, ma solo qualche detassazione di imposte; il secondo è stata
quello fascista, che ha spezzettato gli interventi statali e parastatali
in diverse tipologie realizzative: case economiche, popolari e case popolarissime.
Il terzo è stato quello del dopoguerra, con una politica
democratica che ha
dato a pagamento le case ai lavoratori dipendenti, realizzando il migliore
intervento sociale di tutto il Novecento. Infine, dopo la legge casa del 1971, il
quarto, di tipo democratico-sociale,
ha privilegiato le famiglie bisognose, ha costruito molti servizi ma non ha
fatto assistenza e governance; e
questa scelta è stata la peggiore politica di tutto il secolo scorso.
Il disinteresse
dello Stato, salvo il multiforme periodo fascista, è stato continuo, cosi come
l’incompetente gestione degli enti che negli anni ‘70/’80, unita ad una
incultura dei nuovi abitanti, non è riuscita a contrastare nei quartieri il
formarsi di situazioni delinquenziali che hanno trasformato una quindicina di
quartieri pubblici in luoghi malfamati e invivibili.
Infine nel 2008 è stato creato il Social Hosting, una iniziativa privata con basso sostegno pubblico, diretta ai ceti medio bassi che, pur realizzando interessanti complessi dal punto di vista tecnologico, ha costruito pochi alloggi, circa 9000 in 15 anni, quasi tutti ubicati al Nord e con affitti medio alti, che non hanno costituito una valida alternativa alle case pubbliche.
Il ruolo dell’architettura
Passando all’architettura delle case popolari
possiamo dire che i progetti hanno oscillato tra sperimentazione e
rivisitazione della tradizione italiana[2]. In
particolare nel periodo liberale l’attenzione progettuale si è concentrata sul
miglioramento edilizio e tecnologico degli edifici a blocco, disegnati con un
semplice linguaggio tradizionale come nei due complessi milanesi della Soc.
coop. Umanitaria, fatti con alloggi e servizi agli abitanti e nel conterraneo quartiere
Mac Mahon ha sperimentato diverse variazioni tipologiche.
Vengono inoltre sperimentate differenti
conformazioni tipologiche, come blocchi chiusi o aperti, palazzine, villini e
case a schiera, realizzati con interventi
composti da edifici modanati spesso con
semplici decori ottocenteschi: per esempio al quartiere a misura umana di S.
Saba, oppure alla qualità urbanistica del quartiere di piazza Verbano, entrambi
a Roma.
Nel periodo fascista si intrecciano
conformazioni sperimentali e scelte stilistiche sia tradizionali che
innovative. Dopo un iniziale interesse per il sobborgo giardino a Milano, Venezia
e Palermo, è soprattutto a Roma che si realizzano due grandi interventi come il
progetto cooperativo della città giardino Aniene e la città giardino ICP alla
Garbatella, quest’ultima composta da vari accostamenti: una borgata giardino,
palazzine, edifici polifunzionali e intensivi.
La ricerca sull’innovazione distributiva invece
continua a Milano nel quartiere Mazzini, composto da blocchi a corte semi-aperta,
oppure si ritrova nella posizione dei servizi degli alloggi inseriti nelle sporgenze
del quartiere milanese Alla Fontana. Sperimentazioni che diventano anche ricerca
di una originale disposizione come nel quartiere torinese di Vittorio Veneto
dove 16 edifici a corte sono posti concatenati a formare un isolato quasi
quadrato.
Ma il linguaggio architettonico guarda anche alla
tradizione italiana come risorsa: vengono infatti concepiti quartieri con
palazzine con decori in stile storicistico eclettico come nell’edificio napoletano
del Duca d’Aosta, oppure nell’edificio cooperativo in stile “barocchetto” dei
Dipendenti del Governatorato a Roma.
Comunque
nel periodo fascista i linguaggi monumentali e novecenteschi rimangono una
componente attiva del progetto di edifici popolari e impiegatizi. Lo dimostrano
per esempio gli interventi innovativi degli alberghi sub-urbani di I. Sabbatini
alla Garbatella. Successivamente si fa strada una semplificazione stilistica di
tipo razionale come nel Villaggio della Rivoluzione Fascista a Bologna oppure
nel villaggio Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco; una semplificazione si misura anche
col razionalismo tedesco, prima con timidezza come nel quartiere milanese del Molise
e poi, più decisamente, nel conterraneo quartiere Fabio Filzi.
Nel
dopoguerra, nel periodo 1949-1970, il leggero organicismo dell’Ina Casa che non
ha escluso sperimentazioni diverse, caratterizza moltissimi quartieri di
periferia con
conformazioni
miste, stecche, palazzine e torri. Tra i tanti quartieri Ina si segnalano
alcuni quartieri: la qualità abitativa del Falchera a Torino, la varia
diversità del quartiere Harar Dessiè a Milano, le variazioni delle fabbriche al
Canton Vesco ad Ivrea, l’ordinato Rosta Nuova a Reggio Emilia, la novità del Tiburtino
a Roma, i riferimenti contadini dell’Ina Olivetti a Pozzuoli, l’intervento adeguato
al contesto fatto da Ridolfi a Cerignola. Ma tra questi emergono anche
interventi sperimentali di diverso tipo come: l’Unità d’Abitazione Orizzontale a
Roma, il quartiere Bernabò Brea a Genova, la grande dimensione del Forte Quezzi
a Genova, e anche tentativi di prefabbricazione come nel quartiere gescal
Quarto Cagnino a Milano.
Infine nell’ultimo periodo di vita delle case pubbliche,
1971-1990, pochi interventi di grande dimensione hanno caratterizzato, spesso
in negativo, un decennio di edilizia popolare.
Penso all’intervento fuori scala del mastodonte
Corviale, all’equilibrato quartiere di Vigne Nuove, sempre a Roma, e anche al
difficile uso della grande corte del Rozzol Melara a Trieste.
Ai questi quartieri andrebbero aggiunti molti
altri interventi fatti dallo Iacp, dai Comuni, da altri enti e da aziende come
l’Italsider, oppure altri interventi di tipo misto, pubblico-privato, con
conformazioni quasi normali, con stecche, torri, corti, unità edilizie,
interventi sperimentali e interventi con nuova attenzione ai contesti.
Tra i molti esempi penso al quartiere laboratorio QT8 a Milano, allo sperimentale Villaggio Matteotti a Terni, all’ ottimo intervento di G. Valle nella ex area Trevisan, al tessuto del quartiere ce Barca a Bologna, alle razionaliste Case per Senza Tetto a Napoli di L. Cosenza, alle case contadine aperte su strada del Borgo la Martella a Matera.
Disinteresse statale, censimento incompleto, costi affitto case pubbliche
Eppure la cultura dello Stato in relazione ai
luoghi delle case pubbliche ha continuato e continua ancora oggi a
sottovalutare le periferie e i suoi abitanti, non riuscendo a farsi carico di
programmi di miglioramento della vita dei quartieri. C’è un palese disinteresse
per la città dei poveri, molto ingrandita dopo il Covid. Un disinteresse
confermato anche dall’esito confuso del piano europeo PinQua/Pnrr che aveva
previsto interventi di riqualificazione urbana e di recupero abitativo per
circa 11.150 alloggi di cui oggi non si capisce quale esito avranno.
In realtà il bisogno di case a prezzo
accettabile sta crescendo moltissimo e credo che la separazione tra la città
dei poveri e la città dei ricchi, di cui parla Bernardo Secchi sia destinata ad
aumentare. Tra i tanti obiettivi socio-edilizi che si possono pensare, due
almeno mi sembrano urgenti. Il primo riguarda, la manutenzione e il miglioramento
dei contesti della vita dei quartieri che migliorerebbe i luoghi urbani. Il
secondo riguarda la costruzione di nuove case pubbliche che, senza occupare
nuovo suolo, verrebbero incontro ai troppi nuclei
familiari in attesa nelle graduatorie comunali.
Per approfondire le discrasie dell’attuale gestione
delle case ERP credo sia necessario fare un passo indietro e ricordare alcune
cause che l’hanno determinate. Le Regioni e i Comuni
hanno incontrato molta difficoltà nel trasferire ai nuovi enti creati o società
tipo Acer, Aler, Ater, Agenzia Casa etc., il patrimonio ex Iacp o quello di
altri enti. L’assenza storica dello
Stato, durata un intero secolo, ha creato un intreccio di difficoltà che hanno
sommato discrasie dovute al riordino delle competenze tra Stato e Regione, alla
sovrapposizione gestionale tra Regione e Comuni, alla mancanza di un
Osservatorio nazionale sugli alloggi pubblici, ad ingorghi e macchinosità nella
gestione comunale dei bandi di assegnazione delle case.
Soprattutto la mancanza di un censimento affidabile (sollecitato nel 2020 anche dalla Corte dei Conti come un necessario organo di governo del settore), cui fare riferimento, ha influito negativamente sulla gestione, sulle risorse necessarie per intervenire senza sprechi, sulle scelte energetiche, strutturali, e sull’opportunità di interventi di riqualificazione/demolizione degli edifici; non solo ma l’approssimativa conoscenza del patrimonio ha scoordinato i programmi sugli alloggi sfitti per necessità di recupero, sulle unità con abitanti morosi, oppure con abusivi o con irregolari (per esempio per variazioni di reddito e/o di affollamento del nucleo familiare).
È noto che oggi gli
interventi di riqualificazione degli alloggi vanno adeguati ad una aggiornata
abitabilità con interventi di miglioramento sismico, di efficienza energetica e
di neutralità climatica che richiedono operazioni più complesse, più lunghe e più
costose.
La forte domanda di alloggi economici, dovuta al basso
costo dell’affitto e al rialzo dei prezzi edilizi, è una scelta originata da
condizioni di povertà e da difficoltà sociali, cioè da nuclei familiari che non
possono permettersi spese minime per una vita accettabile. L’aumento dei poveri
assoluti che insieme ai poveri relativi, cioè famiglie che non possono spendere
più di € 1150 al mese, sommano oggi circa 8,4 milioni di persone che sono escluse
dalla economia di mercato, e guardano alle case pubbliche con molta speranza,
come ad un’indispensabile affermazione di identità, esistenza e di non
esclusione dalla società.
I requisiti per accedere ad una casa pubblica del
resto sono abbastanza basilari e riguardano reddito e composizione del nucleo
familiare, ma la verità è che le case non ci sono. La politica, cioè
l’economia, sta escludendo sempre più i poveri dall’avere un alloggio pubblico;
la protezione sociale è stata ridotta, e sono stati creati ostacoli anche alle
iniziative comunitarie tanto che sembra scomparsa la possibilità di un’emancipazione
dalla povertà.
I requisiti per avere un alloggio prevedono generalmente di essere cittadino italiano residente o immigrato regolare, di avere un reddito familiare ISEE annuo non superiore a 16/20.000 euro, di non essere un occupante abusivo e di non avere condanne penali gravi. Rispettando questi requisiti e con l’aiuto della fortuna si può sperare di avere una casa al costo di affitto di circa 80/250 euro mese che va sommato alle spese accessorie dell’abitazione, circa 3000 euro/anno. La Caritas stima che il costo annuo totale per alloggio secondo tre fasce di condizione abitativa siano, sommando affitto e spese accessorie, pari a questi costi: fascia 1. € 720+3000; fascia 2. € 1950+3000; fascia 3. € 3000+3000.
Sulla gestione regionale
Anche se non è facile ricostruire un quadro esatto del
patrimonio delle case pubbliche[3]
in gestione alle regioni in mancanza di un Osservatorio nazionale, si riportano
alcuni dati disponibili al 2023.
In Lombardia l’Aler gestisce circa 36.000 appartamenti
di cui circa 8000 alloggi sono sfitti mentre la società M.M gestisce a Milano
28.000 alloggi comunali più locali e altro, nei quali si trovano circa 5000
alloggi sfitti da riattare.
Nel Veneto gli alloggi
ERP sono, al 2017, circa 55.500 e l’Ater Venezia, secondo i dati
dell’Osservatorio Civico, ha 2200 alloggi non affittati di cui 1270 gestiti
direttamente e 930 in carico al Comune,
che riesce a fare solo manutenzione ordinaria.
Nel Lazio l’Ater
gestisce circa 48.000 alloggi mentre il Comune di Roma conduce 28.000
alloggi. l’Unione Inquilini sostiene che vengono assegnate circa 150/200 case
l’anno ma che negli archivi giacciono circa 13.000 domande regolari di nuclei
familiari in graduatoria che aspettano l’assegnazione. Dal 2019 è
operativo un piano triennale di nuovi alloggi per 708 nuove unità.
In Emilia Romagna la Regione gestisce un patrimonio di
56.500 case pubbliche e che con un finanziamento del 2021 ha recuperato 731
case sfitte. L’Acer Bologna gestisce circa 12.000 case e ha negli archivi 6500
domande di alloggio in attesa. Inoltre la ASP Bologna, Azienda Servizi alle
Persone, gestisce circa 1500 case. Bologna è l’unica città italiana che ha in
corso di realizzazione un Museo della Casa Popolare.
In Toscana la Regione gestisce un patrimonio ERP che
somma circa 50.000 alloggi. A Firenze e provincia, il servizio LODE, gestisce
un patrimonio verificato nel 2012 di 12.800 alloggi mentre nel contempo ci sono
1070 alloggi sfitti e negli archivi giacciono circa 3400 domande ammesse per
nuovi alloggi. Firenze città ha un patrimonio di circa 8000 alloggi di cui 800
sono case sfitte. Attualmente è in corso un piano di recupero per circa 500
alloggi.
In Campania l’Acer gestisce circa 57.700 alloggi e
notizie regionali riportano che con legge 80/2014 sono stati finanziati
interventi sull’esistente per 34 alloggi sfitti e per 1572 alloggi da
ripristinare e manutenere. Un successivo finanziamento del 2016 ha previsto nei
capoluoghi di provincia interventi per circa 1000 alloggi.
A Napoli ci sono 24.000 alloggi pubblici divisi tra Ente e Comune, e di questi 2600 sono occupati abusivamente e per di più oltre la metà delle famiglie alloggiate sono morose o irregolari. Recentemente sono arrivate al Comune circa 20.000 istanze di regolarizzazione e 1240 ordini di sgombero. Da considerare che il costo dell’affitto è abbastanza esiguo, ed oscilla, a seconda della dimensione dell’alloggio e del nucleo familiare, tra 80/100 euro/mese. A fine 2023 il Comune ha messo a bando 50 alloggi per i quali sono arrivate circa 8.000 domande mentre negli archivi, al 2022, giacciono circa 32.000 domande di alloggio inevase e 15.000 sono domande di nuclei familiari in attesa di avere una casa pubblica (4).
[1] M.
Ferrera, V. Fargion , M. Jessoula, Alle
radici del Welfare all’italiana,
Banca d’Italia, 2012.
[2] Elenco quartieri citati:
Soc. coop. Umanitaria, Milano, primo e
secondo intervento,1908, G. Broglio; quartiere Mac Mahon, Milano, 1908, G.
Ferrino e A. Scotti; S. Saba, Roma, 1907-23, Quadrio Pirani e G. Bellucci);
piazza Verbano, Roma, 1920-31, prog. urb. D.
Barbieri;
Città giardino Aniene, Roma, 1920-30,
G. Giovannoni; Città giardino ICP alla Garbatella, 1921-29, prog. urb. G.
Giovannoni e Mass. Piacentini;
Quartiere Mazzini, Milano, 1925-31, G.
Broglio; quartiere Alla Fontana, Milano,
1927-30, E. Griffini, G. Manfredi; Quartiere Vittorio Veneto, Torino, 1928-30,
U. Cuzzi; Edificio Duca d’Aosta , Napoli, 1913, D. Primicerio; Edificio
cooperativo Dipendenti del Governatorato, Roma, 1927-30, M. De Renzi, L.
Ciarrocchi; Garbatella, Roma, 1926-28, I. Sabbatini; Villaggio della
Rivoluzione Fascista, Bologna, 1936-38, F. Santini; Villaggio Alfa Romeo, Pomigliano
d’Arco, 1938-40, A. Cairoli; quartiere Molise, Milano, 1932-38, C. e M.
Mazzocchi; quartiere Fabio Filzi, Milano, 1935-38, F. Albini, G. Palanti, R.
Camus;
Falchera, Torino, 1950-58, G. Astengo;
Harar Dessiè, Milano, 1951-55, L. Figini, G. Pollini, G. Ponti; Canton Vesco,
Ivrea, 1950-53, M. Nizzoli e altri; Rosta Nuova, Reggio Emilia, 1956-68, F.
Albini, F. Helg, E. Manfredini; Tiburtino, Roma, 1949-54, L. Quaroni, M.
Ridolfi; Ina Olivetti, Pozzuoli, 1952-63, L. Cosenza; intervento a Cerignola,
1950-51, M. Ridolfi, W. Frankl; Unità d’Abitazione Orizzontale, Roma, 1950-54,
A. Libera; Bernabò Brea, Genova, 1950-53, L. Daneri; Forte Quezzi,
Genova,1956-68, L. Daneri, E. Fuselli; Quarto Cagnino, gescal, Milano, 1967-63,
V. Montaldo;
QT8, Milano, 1946-61, coord. P. Bottoni; Villaggio Matteotti, Terni, 1969-75, G. De Carlo; intervento ex area Trevisan, Venezia, Giudecca, 1980-86, G. Valle; quartiere Cep Barca, Bologna, 1957-62, coord. G. Vaccaro; Case per Senza Tetto, Napoli, 1949-52, L. Cosenza, C. Con; Borgo la Martella, Matera, 1951-54, L. Quaroni, F. Gorio, P.M. Lugli, M. Valori, M. Agati.
[3]
Notizie e dati ripresi dai seguenti siti online:
http://www.dirittodeiservizipubblici.it/articoli/articolo.asp?sezione=dettarticolo&id=221
eg15.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/08/08_cap23.htm
https://www.acercampania.it/index.php/trasparenza/canoni-di-locazione-o-affitto/
https://www.soldioggi.it/case-popolari-16540.html
https://osservatoriocasaroma.com/periferie-italia/i-casi-di-studio/
https://osservatoriocasaroma.com/2018/02/19/1-1-il-patrimonio-residenziale-pubblico/
https://it.wikipedia.org/wiki/Edilizia_residenziale_pubblica#:~:text=In%20Italia%20venne%20fondato%20su,la%20concessione%20di%20case%20popolari
https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/maurizio-franco/2022/10/03/case-popolari-vuote
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