sabato 9 dicembre 2023

Note sulle case pubbliche del Novecento e sull’attuale gestione regionale

Sergio Stenti

Un piccolo esempio ci illustra bene il livello cui sta arrivando il bisogno di case pubbliche, una situazione che appare simile per dimensione a quella di 70 anni fa. A Napoli il Comune ha emesso un bando per assegnare ai richiedenti in regola con i requisiti, cinquanta case comunali. Le domande presentate, fatte da nuclei familiari, sono state circa 8000 (Repubblica, 23.10.2023). La sproporzione tra offerta e domanda ha dell’incredibile: è come se fossimo in una situazione abitativa simile a quella del periodo post-bellico.

Certamente il Sud sconta una maggiore povertà rispetto ai dati medi italiani comunque peggiorati dalla pandemia; dati che stimano 5,6 milioni di poveri assoluti e 2,8 mln di poveri relativi e che, nonostante questo altissimo numero di poveri o quasi poveri, cresce l’occupazione di nuovo suolo: nuove case, aziende, industrie, depositi, strade etc. un’eliminazione che dal 2021 ha trasformato circa 1000 ettari di campagna in suolo occupato.  

E’ dal 1998 che le Regioni gestiscono autonomamente il patrimonio di case degli enti nazionali ex Iacp e simili, e da allora, attraverso la creazione di nuovi enti, gestiscono la manutenzione dell’esistente, il recupero, la ricostruzione ed eventuali nuovi interventi.

La casa pubblica è un settore dello Stato piuttosto trascurato da oltre un secolo. Manca un censimento nazionale delle case popolari e i dati disponibili sono ancora approssimativi: un insieme ancora confuso di case abitate, locali, case sfitte, abitanti morosi, irregolari e anche case da riattate il cui numero, si stima, ammonta a circa 55.000 unità.    

Lo Stato ha sempre trascurato l’edilizia popolare e i suoi abitanti affidando la gestione ad enti statali e/o parastatali non adeguatamente preparati e regolati con norme diverse.

I vari governi succedutisi durante il Novecento hanno prodotto, lentamente e in ritardo rispetto all’Europa, riforme sociali che hanno riguardato pensioni, lavoro, sanità e assistenza; ma è solo dagli anni ’70 che si sono verificati maggiori investimenti nei servizi sociali ai quali però non è stato attivato un parallelo sviluppo della gestione e della efficienza degli interventi stessi, come riporta con chiarezza il volume Alle radici del Welfare all’italiana[1].  

Durante un intero secolo lo Stato ha realizzato poche case pubbliche, circa il 3,8 % del totale degli alloggi nazionali che se aggiungiamo “ad abundantiam” anche le case cooperative e le case per ceti medi fatte da enti parastatali, questa percentuale può diventare circa il 7/8 %, del totale, ancora molto inferiore alla percentuale media europea che arriva al 17%.

Le case popolari sono state un essenziale intervento pubblico che ha dato un futuro di speranza ai lavoratori e ai poveri. Un sostegno sociale tanto più importante se si considera che la nostra Costituzione non ha previsto tra i diritti, il diritto all’abitazione. L’articolo 47 della Costituzione infatti, ha espresso solo un principio generale delegando alla cura del risparmio popolare gestito dalle banche la possibilità di avere una casa in proprietà. Ma se una persona si trova senza casa, e quindi “non ha un indirizzo”, questa persona civilmente non esiste, e scompare tra gli homeless.

Interventi governativi

Possiamo sintetizzare gli interventi governativi di case pubbliche in due periodi.  Nel primo periodo,1903-1970, le case sono state una fondamentale risorsa sociale per il paese anche se ma è mancata una visione urbanistica del contesto e, a livello governativo, non si è ritenuto di costituire un ministero ad hoc per controllare gli interventi e i risultati. Nel secondo periodo,1971-1998, gli interventi sono stati attratti dal   fascino della grande dimensione che in realtà, nella sua applicazione, ha creato molti più problemi sociali di quanti ne abbia risolti. Non solo gli interventi non hanno risolto problematiche abitative ma gli enti gestori, poco competenti, hanno dimenticato che in questi interventi gli abitanti erano e sono i veri protagonisti delle case pubbliche ai quali andava e va data assistenza.

Con la legge casa del 1971, il governo di centro sinistra provò a modificare la politica per le case pubbliche con un tentativo civico fatto anche in risposta ai movimenti politici del ’68. Fu emanato un provvedimento illusorio pensando di poter trasformare le case pubbliche quasi in un servizio sociale. La legge liberalizzò progetti e approvazioni, rifondò lo Iacp, approvò una specie di cogestione con gli abitanti che non venne applicata. Sul piano sociale furono favorite le famiglie povere e numerose, alle quali furono dati maggiori punteggi nelle assegnazioni rispetto ad altri richiedenti, ma furono trascurate le inevitabili conseguenze dovute alla disuguaglianza culturale dei nuovi abitanti rispetto alle regole fino ad allora praticate, che inevitabilmente hanno prodotto risultati sociali negativi.

Politiche per la casa popolare

Analizzando le politiche sociali del Novecento, si può dire che quelle praticate sono state in sintesi di quattro differenti tipi. Il primo è stato quello liberale, che non prevedeva interventi statali, ma solo qualche detassazione di imposte; il secondo è stata quello  fascista, che ha spezzettato gli interventi statali e parastatali in diverse tipologie realizzative: case economiche, popolari e case popolarissime. Il terzo è stato quello del dopoguerra, con una politica democratica che ha dato a pagamento le case ai lavoratori dipendenti, realizzando il migliore intervento sociale di tutto il Novecento. Infine, dopo la legge casa del 1971, il quarto, di tipo democratico-sociale, ha privilegiato le famiglie bisognose, ha costruito molti servizi ma non ha fatto assistenza e governance; e questa scelta è stata la peggiore politica di tutto il secolo scorso.

Il disinteresse dello Stato, salvo il multiforme periodo fascista, è stato continuo, cosi come l’incompetente gestione degli enti che negli anni ‘70/’80, unita ad una incultura dei nuovi abitanti, non è riuscita a contrastare nei quartieri il formarsi di situazioni delinquenziali che hanno trasformato una quindicina di quartieri pubblici in luoghi malfamati e invivibili.

Infine nel 2008 è stato creato il Social Hosting, una iniziativa privata con basso sostegno pubblico, diretta ai ceti medio bassi che, pur realizzando interessanti complessi dal punto di vista tecnologico, ha costruito pochi alloggi, circa 9000 in 15 anni, quasi tutti ubicati al Nord e con affitti medio alti, che non hanno costituito una valida alternativa alle case pubbliche.

Il ruolo dell’architettura

Passando all’architettura delle case popolari possiamo dire che i progetti hanno oscillato tra sperimentazione e rivisitazione della tradizione italiana[2]. In particolare nel periodo liberale l’attenzione progettuale si è concentrata sul miglioramento edilizio e tecnologico degli edifici a blocco, disegnati con un semplice linguaggio tradizionale come nei due complessi milanesi della Soc. coop. Umanitaria, fatti con alloggi e servizi agli abitanti e nel conterraneo quartiere Mac Mahon ha sperimentato diverse variazioni tipologiche.    

Vengono inoltre sperimentate differenti conformazioni tipologiche, come blocchi chiusi o aperti, palazzine, villini e case a schiera, realizzati con interventi composti da edifici modanati spesso con semplici decori ottocenteschi: per esempio al quartiere a misura umana di S. Saba, oppure alla qualità urbanistica del quartiere di piazza Verbano, entrambi a Roma. 

Nel periodo fascista si intrecciano conformazioni sperimentali e scelte stilistiche sia tradizionali che innovative. Dopo un iniziale interesse per il sobborgo giardino a Milano, Venezia e Palermo, è soprattutto a Roma che si realizzano due grandi interventi come il progetto cooperativo della città giardino Aniene e la città giardino ICP alla Garbatella, quest’ultima composta da vari accostamenti: una borgata giardino, palazzine, edifici polifunzionali e intensivi.   

La ricerca sull’innovazione distributiva invece continua a Milano nel quartiere Mazzini, composto da blocchi a corte semi-aperta, oppure si ritrova nella posizione dei servizi degli alloggi inseriti nelle sporgenze del quartiere milanese Alla Fontana. Sperimentazioni che diventano anche ricerca di una originale disposizione come nel quartiere torinese di Vittorio Veneto dove 16 edifici a corte sono posti concatenati a formare un isolato quasi quadrato. 

Ma il linguaggio architettonico guarda anche alla tradizione italiana come risorsa: vengono infatti concepiti quartieri con palazzine con decori in stile storicistico eclettico come nell’edificio napoletano del Duca d’Aosta, oppure nell’edificio cooperativo in stile “barocchetto” dei Dipendenti del Governatorato a Roma.

Comunque nel periodo fascista i linguaggi monumentali e novecenteschi rimangono una componente attiva del progetto di edifici popolari e impiegatizi. Lo dimostrano per esempio gli interventi innovativi degli alberghi sub-urbani di I. Sabbatini alla Garbatella. Successivamente si fa strada una semplificazione stilistica di tipo razionale come nel Villaggio della Rivoluzione Fascista a Bologna oppure nel villaggio Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco; una semplificazione si misura anche col razionalismo tedesco, prima con timidezza come nel quartiere milanese del Molise e poi, più decisamente, nel conterraneo quartiere Fabio Filzi.

Nel dopoguerra, nel periodo 1949-1970, il leggero organicismo dell’Ina Casa che non ha escluso sperimentazioni diverse, caratterizza moltissimi quartieri di periferia con

conformazioni miste, stecche, palazzine e torri. Tra i tanti quartieri Ina si segnalano alcuni quartieri: la qualità abitativa del Falchera a Torino, la varia diversità del quartiere Harar Dessiè a Milano, le variazioni delle fabbriche al Canton Vesco ad Ivrea, l’ordinato Rosta Nuova a Reggio Emilia, la novità del Tiburtino a Roma, i riferimenti contadini dell’Ina Olivetti a Pozzuoli, l’intervento adeguato al contesto fatto da Ridolfi a Cerignola. Ma tra questi emergono anche interventi sperimentali di diverso tipo come: l’Unità d’Abitazione Orizzontale a Roma, il quartiere Bernabò Brea a Genova, la grande dimensione del Forte Quezzi a Genova, e anche tentativi di prefabbricazione come nel quartiere gescal Quarto Cagnino a Milano.   

Infine nell’ultimo periodo di vita delle case pubbliche, 1971-1990, pochi interventi di grande dimensione hanno caratterizzato, spesso in negativo, un decennio di edilizia popolare. 

Penso all’intervento fuori scala del mastodonte Corviale, all’equilibrato quartiere di Vigne Nuove, sempre a Roma, e anche al difficile uso della grande corte del Rozzol Melara a Trieste.

Ai questi quartieri andrebbero aggiunti molti altri interventi fatti dallo Iacp, dai Comuni, da altri enti e da aziende come l’Italsider, oppure altri interventi di tipo misto, pubblico-privato, con conformazioni quasi normali, con stecche, torri, corti, unità edilizie, interventi sperimentali e interventi con nuova attenzione ai contesti. 

Tra i molti esempi penso al quartiere laboratorio QT8 a Milano, allo sperimentale Villaggio Matteotti a Terni, all’ ottimo intervento di G. Valle nella ex area Trevisan, al tessuto del quartiere ce Barca a Bologna, alle razionaliste Case per Senza Tetto a Napoli di L. Cosenza, alle case contadine aperte su strada del Borgo la Martella a Matera.

Disinteresse statale, censimento incompleto, costi affitto case pubbliche

Eppure la cultura dello Stato in relazione ai luoghi delle case pubbliche ha continuato e continua ancora oggi a sottovalutare le periferie e i suoi abitanti, non riuscendo a farsi carico di programmi di miglioramento della vita dei quartieri. C’è un palese disinteresse per la città dei poveri, molto ingrandita dopo il Covid. Un disinteresse confermato anche dall’esito confuso del piano europeo PinQua/Pnrr che aveva previsto interventi di riqualificazione urbana e di recupero abitativo per circa 11.150 alloggi di cui oggi non si capisce quale esito avranno.

In realtà il bisogno di case a prezzo accettabile sta crescendo moltissimo e credo che la separazione tra la città dei poveri e la città dei ricchi, di cui parla Bernardo Secchi sia destinata ad aumentare. Tra i tanti obiettivi socio-edilizi che si possono pensare, due almeno mi sembrano urgenti. Il primo riguarda, la manutenzione e il miglioramento dei contesti della vita dei quartieri che migliorerebbe i luoghi urbani. Il secondo riguarda la costruzione di nuove case pubbliche che, senza occupare nuovo suolo, verrebbero incontro ai troppi nuclei familiari in attesa nelle graduatorie comunali.

Per approfondire le discrasie dell’attuale gestione delle case ERP credo sia necessario fare un passo indietro e ricordare alcune cause che l’hanno determinate. Le Regioni e i Comuni hanno incontrato molta difficoltà nel trasferire ai nuovi enti creati o società tipo Acer, Aler, Ater, Agenzia Casa etc., il patrimonio ex Iacp o quello di altri enti.  L’assenza storica dello Stato, durata un intero secolo, ha creato un intreccio di difficoltà che hanno sommato discrasie dovute al riordino delle competenze tra Stato e Regione, alla sovrapposizione gestionale tra Regione e Comuni, alla mancanza di un Osservatorio nazionale sugli alloggi pubblici, ad ingorghi e macchinosità nella gestione comunale dei bandi di assegnazione delle case.

Soprattutto la  mancanza di un censimento affidabile (sollecitato nel 2020 anche dalla Corte dei Conti come un necessario organo di governo del settore), cui fare riferimento, ha influito negativamente sulla gestione, sulle risorse necessarie per intervenire senza sprechi, sulle scelte energetiche, strutturali, e sull’opportunità  di interventi di riqualificazione/demolizione  degli edifici; non solo ma l’approssimativa  conoscenza del patrimonio ha scoordinato i programmi sugli alloggi sfitti per necessità di recupero, sulle unità con abitanti morosi, oppure con abusivi o con irregolari (per esempio per variazioni di reddito e/o di affollamento del nucleo familiare).

È noto che oggi gli interventi di riqualificazione degli alloggi vanno adeguati ad una aggiornata abitabilità con interventi di miglioramento sismico, di efficienza energetica e di neutralità climatica che richiedono operazioni più complesse, più lunghe e più costose.   

La forte domanda di alloggi economici, dovuta al basso costo dell’affitto e al rialzo dei prezzi edilizi, è una scelta originata da condizioni di povertà e da difficoltà sociali, cioè da nuclei familiari che non possono permettersi spese minime per una vita accettabile. L’aumento dei poveri assoluti che insieme ai poveri relativi, cioè famiglie che non possono spendere più di € 1150 al mese, sommano oggi circa 8,4 milioni di persone che sono escluse dalla economia di mercato, e guardano alle case pubbliche con molta speranza, come ad un’indispensabile affermazione di identità, esistenza e di non esclusione dalla società.

I requisiti per accedere ad una casa pubblica del resto sono abbastanza basilari e riguardano reddito e composizione del nucleo familiare, ma la verità è che le case non ci sono. La politica, cioè l’economia, sta escludendo sempre più i poveri dall’avere un alloggio pubblico; la protezione sociale è stata ridotta, e sono stati creati ostacoli anche alle iniziative comunitarie tanto che sembra scomparsa la possibilità di un’emancipazione dalla povertà.

I requisiti per avere un alloggio prevedono generalmente di essere cittadino italiano residente o immigrato regolare, di avere un reddito familiare ISEE annuo non superiore a 16/20.000 euro, di non essere un occupante abusivo e di non avere condanne penali gravi. Rispettando questi requisiti e con l’aiuto della fortuna si può sperare di avere una casa al costo di affitto di circa 80/250 euro mese che va sommato alle spese accessorie dell’abitazione, circa 3000 euro/anno. La Caritas stima che il costo annuo totale per alloggio secondo tre fasce di condizione abitativa siano, sommando affitto e spese accessorie, pari a questi costi: fascia 1. € 720+3000; fascia 2. € 1950+3000; fascia 3. € 3000+3000.

Sulla gestione regionale

Anche se non è facile ricostruire un quadro esatto del patrimonio delle case pubbliche[3] in gestione alle regioni in mancanza di un Osservatorio nazionale, si riportano alcuni dati disponibili al 2023. 

In Lombardia l’Aler gestisce circa 36.000 appartamenti di cui circa 8000 alloggi sono sfitti mentre la società M.M gestisce a Milano 28.000 alloggi comunali più locali e altro, nei quali si trovano circa 5000 alloggi sfitti da riattare.

Nel Veneto gli alloggi ERP sono, al 2017, circa 55.500 e l’Ater Venezia, secondo i dati dell’Osservatorio Civico, ha 2200 alloggi non affittati di cui 1270 gestiti direttamente   e 930 in carico al Comune, che riesce a fare solo manutenzione ordinaria.

Nel Lazio l’Ater gestisce circa 48.000 alloggi mentre il Comune di Roma conduce 28.000 alloggi. l’Unione Inquilini sostiene che vengono assegnate circa 150/200 case l’anno ma che negli archivi giacciono circa 13.000 domande regolari di nuclei familiari in graduatoria che aspettano l’assegnazione. Dal 2019 è operativo un piano triennale di nuovi alloggi per 708 nuove unità.

In Emilia Romagna la Regione gestisce un patrimonio di 56.500 case pubbliche e che con un finanziamento del 2021 ha recuperato 731 case sfitte. L’Acer Bologna gestisce circa 12.000 case e ha negli archivi 6500 domande di alloggio in attesa. Inoltre la ASP Bologna, Azienda Servizi alle Persone, gestisce circa 1500 case. Bologna è l’unica città italiana che ha in corso di realizzazione un Museo della Casa Popolare.

In Toscana la Regione gestisce un patrimonio ERP che somma circa 50.000 alloggi. A Firenze e provincia, il servizio LODE, gestisce un patrimonio verificato nel 2012 di 12.800 alloggi mentre nel contempo ci sono 1070 alloggi sfitti e negli archivi giacciono circa 3400 domande ammesse per nuovi alloggi. Firenze città ha un patrimonio di circa 8000 alloggi di cui 800 sono case sfitte. Attualmente è in corso un piano di recupero per circa 500 alloggi.

In Campania l’Acer gestisce circa 57.700 alloggi e notizie regionali riportano che con legge 80/2014 sono stati finanziati interventi sull’esistente per 34 alloggi sfitti e per 1572 alloggi da ripristinare e manutenere. Un successivo finanziamento del 2016 ha previsto nei capoluoghi di provincia interventi per circa 1000 alloggi.

A Napoli ci sono 24.000 alloggi pubblici divisi tra Ente e Comune, e di questi 2600 sono occupati abusivamente e per di più oltre la metà delle famiglie alloggiate sono morose o irregolari. Recentemente sono arrivate al Comune circa 20.000 istanze di regolarizzazione e 1240 ordini di sgombero. Da considerare che il costo dell’affitto è abbastanza esiguo, ed oscilla, a seconda della dimensione dell’alloggio e del nucleo familiare, tra 80/100 euro/mese. A fine 2023 il Comune ha messo a bando 50 alloggi per i quali sono arrivate circa 8.000 domande mentre negli archivi, al 2022, giacciono circa 32.000 domande di alloggio inevase e 15.000 sono domande di nuclei familiari  in attesa di avere una casa pubblica (4).  


[1] M. Ferrera, V. Fargion , M. Jessoula, Alle radici del Welfare all’italiana,

Banca d’Italia, 2012.

[2] Elenco quartieri citati: 

Soc. coop. Umanitaria, Milano, primo e secondo intervento,1908, G. Broglio; quartiere Mac Mahon, Milano, 1908, G. Ferrino e A. Scotti; S. Saba, Roma, 1907-23, Quadrio Pirani e G. Bellucci); piazza Verbano, Roma, 1920-31, prog. urb. D.  Barbieri;

Città giardino Aniene, Roma, 1920-30, G. Giovannoni; Città giardino ICP alla Garbatella, 1921-29, prog. urb. G. Giovannoni e Mass. Piacentini;

Quartiere Mazzini, Milano, 1925-31, G. Broglio;  quartiere Alla Fontana, Milano, 1927-30, E. Griffini, G. Manfredi; Quartiere Vittorio Veneto, Torino, 1928-30, U. Cuzzi; Edificio Duca d’Aosta , Napoli, 1913, D. Primicerio; Edificio cooperativo Dipendenti del Governatorato, Roma, 1927-30, M. De Renzi, L. Ciarrocchi; Garbatella, Roma, 1926-28, I. Sabbatini; Villaggio della Rivoluzione Fascista, Bologna, 1936-38, F. Santini; Villaggio Alfa Romeo, Pomigliano d’Arco, 1938-40, A. Cairoli; quartiere Molise, Milano, 1932-38, C. e M. Mazzocchi; quartiere Fabio Filzi, Milano, 1935-38, F. Albini, G. Palanti, R. Camus;

Falchera, Torino, 1950-58, G. Astengo; Harar Dessiè, Milano, 1951-55, L. Figini, G. Pollini, G. Ponti; Canton Vesco, Ivrea, 1950-53, M. Nizzoli e altri; Rosta Nuova, Reggio Emilia, 1956-68, F. Albini, F. Helg, E. Manfredini; Tiburtino, Roma, 1949-54, L. Quaroni, M. Ridolfi; Ina Olivetti, Pozzuoli, 1952-63, L. Cosenza; intervento a Cerignola, 1950-51, M. Ridolfi, W. Frankl; Unità d’Abitazione Orizzontale, Roma, 1950-54, A. Libera; Bernabò Brea, Genova, 1950-53, L. Daneri; Forte Quezzi, Genova,1956-68, L. Daneri, E. Fuselli; Quarto Cagnino, gescal, Milano, 1967-63, V. Montaldo;

QT8, Milano, 1946-61, coord. P. Bottoni; Villaggio Matteotti, Terni, 1969-75, G. De Carlo; intervento ex area Trevisan, Venezia, Giudecca, 1980-86, G. Valle; quartiere Cep Barca, Bologna, 1957-62, coord. G. Vaccaro; Case per Senza Tetto, Napoli, 1949-52, L. Cosenza, C. Con; Borgo la Martella, Matera, 1951-54, L. Quaroni, F. Gorio, P.M. Lugli, M. Valori, M. Agati.    

[3] Notizie e dati ripresi dai seguenti siti online:

https://www.regione.lombardia.it/wps/portal/istituzionale/HP/DettaglioServizio/servizi-e-informazioni/Enti-e-Operatori/Edilizia-pubblica/Edilizia-residenziale-pubblica/programmi-edilizia-agevolata/programmi-edilizia agevolata

http://www.dirittodeiservizipubblici.it/articoli/articolo.asp?sezione=dettarticolo&id=221

eg15.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/08/08_cap23.htm

https://www.acercampania.it/index.php/trasparenza/canoni-di-locazione-o-affitto/

https://www.soldioggi.it/case-popolari-16540.html

https://osservatoriocasaroma.com/periferie-italia/i-casi-di-studio/

https://osservatoriocasaroma.com/2018/02/19/1-1-il-patrimonio-residenziale-pubblico/

https://it.wikipedia.org/wiki/Edilizia_residenziale_pubblica#:~:text=In%20Italia%20venne%20fondato%20su,la%20concessione%20di%20case%20popolari

https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/maurizio-franco/2022/10/03/case-popolari-vuote

 [4] G. Galeota Lanza, Disuguaglianza abitativa urbana: privazione abitativa e risposta sociale nella città di Napoli, 2022 (da Academia-edu)

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