martedì 20 dicembre 2011

Architettura cenerentola della nuova università

Approvati i nuovi statuti che regolano le trasformazioni delle università italiane secondo la legge Gelmini, si completerà nel corso del 2012 il processo di riorganizzazione delle università riformate.
Eliminate le facoltà e assegnati compiti didattici e di ricerca ai Dipartimenti, le Università si stanno riorganizzando secondo libere scelte dei docenti che si raggruppano per affinità culturali e scientifiche in Scuole che ripropongono, con poca variazione, le stesse facoltà eliminate.
Alcuni atenei hanno scelto di facilitare le nuove aggregazioni in Dipartimenti e Scuole/Facoltà (come Bari, Roma, Milano, Genova, Palermo  etc.),   altre  invece, ed è il caso della Federico II, hanno posto maggiori  limiti  e vincoli, guidando con maggiore decisionismo il modo della riorganizzazione.
Confermata purtroppo la riduzione dei fondi pubblici sia per la didattica e sia soprattutto per la ricerca, il numero dei docenti continuerà progressivamente a ridursi a causa del blocco del turn over determinando cosi un’inevitabile riduzione degli studenti iscritti.
La riforma, com’è noto, tende a riorganizzare le strutture dell’università cercando razionalizzazione ed efficienza e diminuendo i costi, senza però prevedere incentivi o premialità per il miglioramento della formazione. 
Forti ricadute positive si potrebbero avere dalla riunificazione di didattica e ricerca dentro i Dipartimenti, prima interessati solo alla ricerca; ma fare buona ricerca non significa fare buona didattica per cui non si capisce perché si voglia premiare solo chi fa buone ricerche e non anche chi fa buona didattica. Sembra un’antica sottovalutazione quella della didattica rispetto alla ricerca che trascura proprio la trasmissione del sapere, la formazione dei laureati, mettendo fuori centro l’apprendimento e, non a caso, ignorando poi le questioni decisive del post laurea come l’inserimento dei laureati nel mondo del lavoro.
Dopo la sbornia di questi ultimi vent’anni nei quali sono stati creati tanti corsi inutili e laureato molti,  una stagione di maggior rigore può senz’altro migliorare l’università a patto che quegli stessi “baroni” che hanno prodotto la situazione attuale e ai quali la Gelmini affida il cambiamento,  siano virtuosamente spinti a migliorare la qualità  attuale.  
A Napoli, lo statuto approvato dalla Federico II  appare in alcune parti,  in rapporto  agli altri atenei italiani,  in  chiara controtendenza, con regole più restrittive e dirigistiche   della stessa legge  Gelmini. Moltissimi atenei si sono organizzati costituendo tante Scuole quante erano le facoltà operanti (Milano, Trento, Roma, Genova, Bari, etc.), consentendo cosi un passaggio leggero all’università riformata: meno dipartimenti ma distribuiti in molte scuole/facoltà intese come raccordo didattico e gestione dei corsi di laurea.
Alla Federico II invece sono state  create solo quattro  Super Scuole, ( Scienze umane e sociali, Scienze e Tecnologia per la vita, Medicina e Chirurgia, Politecnico e Scienze di base)  forzando 13 facoltà a convergere in sole quattro strutture dove  rimarrano “intruppati”  contenuti disciplinari  e orizzonti culturali molto differenti e gelosi per antica tradizione. 
Ad Architettura per esempio, converrebbe forse un nobile e coraggioso isolamento (Architettura alla SUN sembra avviata su questa strada) piuttosto che un abbraccio soffocante nella Super scuola, quasi Politecnica, che unisce tutte le ingegnerie (da biomedica ad aerospaziale ed elettronica, solo per citarne alcune) alle quali vanno aggiunte matematica e fisica. Trovare reciproco vantaggio culturale e scientifico in questa grande struttura che gestirà oltre 20 corsi di laurea, non appare certo chiaro né forse possibile,  in particolare per una disciplina come architettura che si alimenta col sociale e trae tensione dall’intreccio tra arte e tecnica. Se l’abbraccio ci sarà, la facoltà di Architettura, cenerentola nella nuova Super scuola, si trasformerà perdendo vecchi caratteri distintivi e aquistandone di nuovi (soprattutto un’egemonia del sapere tecnico-scientifico) e questo la allontanerà dal processo che vede impegnate, per i prossimi anni, la maggior parte delle scuole di architettura italiane.
E’ noto che la laurea, specie nelle facoltà professionalizzanti, si è via via ridotta come amplificatore delle possibilità occupazionali delle persone, e tuttavia va sottolineato come il miglioramento della governance non migliora  i nodi della validità  attuale della formazione,  dei contenuti e dei metodi di insegnamento in relazione a ciò che richiede il mercato.
Dopo l’illusione, prodottasi vent’anni fa, con la riforma del 3+2 che riteneva di formare in meno tempo più laureati e migliori,  aumentando l’occupazione con  la nuova figura del  laureato triennale, si è assistito invece e soprattutto ad un aumento significativo di laureati che, in Architettura, ha toccato  la cifra record  di 140.000 unità. Tale notevole nuova massa di laureati, non sufficientemente preparata e aggiornata dall’Università, è diventata, con la tolleranza e la complicità degli Ordini professionali, una massa di professionisti che ha  trasformato l’Italia nel paese europeo col più alto numero di architetti per abitante (23 ogni 10.000 abitanti contro una media europea di 8). E’ come se avessimo messo sul mercato per vent’anni, tredici nuovi architetti al giorno,  a cui vanno aggiunti i  numeri delle altre figure che operano nello stesso campo:  geometri, ingegneri edili , civili e ingegneri-architetti.
Diceva Giò Ponti negli anni cinquanta: amare l’architettura è amare il proprio paese. Sembrava una cosa scontata per noi italiani, ma non era cosi: mentre  siamo  diventati il paese col più alto numero di architetti  in Europa,  la domanda sociale di qualità architettonica non è aumentata e il nostro  prezioso paesaggio nazionale è peggiorato. Un paradosso quasi inspiegabile.
( Repubblica Napoli, 20.12.2011)

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