DOVREBBE essere
una manna per la città e i suoi architetti, soprattutto in un periodo di crisi
come questo, avere in programma e finanziate tutte insieme così tante opere
pubbliche o a sostegno pubblico come abbiamo oggi a Napoli: restauro centro
storico, Mostra d' Oltremare, stadio, metro e stazioni, Bagnoli e altro ancora.
Eppure a fronte di tante opere pubbliche non c' è nessun concorso pubblico
indetto, come rilevava ieri su queste pagine Pasquale Belfiore. Si procede come
se si trattasse d' interventi privati: niente dibattito, niente partecipazione,
niente responsabilità pubblica. Tutto rimane dentro le stanze delle
istituzioni; al più si fanno annunci pubblicitari dei quali poco o nulla si
riesce a comprendere circa la qualità delle scelte e le procedure per
realizzarle. L a pratica dei concorsi per opere pubbliche che da un secolo
costituisce un formidabile trait d' union tra istituzioni e cittadini, si è
purtroppo prosciugata, interrompendo quella salutare diffusione novecentesca
che vedeva la realizzazione dei beni pubblici attraverso il confronto delle
proposte in competizione. Invece sembra oggi di assistere a un ritorno alle
modalità dell' Ottocento quando il Comune trattava con i privati, e i privati
proponevano al Comune, la realizzazione di pezzi di città o di edifici
particolarmente importanti. Con la collaborazione di valenti
ingegneri-architetti, le proposte private diventavano contratti approvati nel
chiuso delle stanze comunali e, mentre risolvevano una cronica inefficienza
comunale, si appropriavano anche della trasformazione della città con una
pratica liberista oltre misura. A carico del liberismo ottocentesco va
addebitato lo sviluppo asfittico della città, la mancanza di parchi e d'
infrastrutture ma anche una qualità urbana dignitosa come quella realizzata tra
l' altro al Rettifilo o al quartiere Santa Brigida. Ma vanno anche ricordati
alcuni incidenti come l' urbanizzazione del Vomero, i cui danni ai cittadini
ricordano i danni oggi subiti dagli abitanti dell' interrotto quartiere di
Santa Giulia, disegnato da Norman Foster, a Milano. La prassi dell' accordo
diretto tra impresee Comune si restringe nel Novecento proprio a favore del
concorso pubblico, sia per opere importanti sia per i quartieri attivando ampi
dibattiti stilistici che diventeranno una palestra di formazione per i giovani
architetti italiani di quel periodo. È a questo punto che la figura del
progettista, architetto o ingegnere, si libera dell' ipoteca delle imprese e s'
impone all' attenzione della città con proposte e progetti tecnicamente e
culturalmente aggiornati. Così sono nati i nostri più importanti edifici della
città moderna: le Poste, le Finanze, la stazione marittima, la stazione
ferroviaria, lo stadio San Paolo, il 2° Policlinico insieme a quartieri come La
Loggetta o Secondigliano II settennio. Quasi del tutto accantonata la pratica
dei concorsi (esistono eccezioni fortunate), le opere pubbliche vengono oggi
costruite o attraverso incarichi diretti o attraverso gare tra imprese con
progetti base redatti per lo più da uffici tecnici interni alle istituzioni che
non brillano certo per qualità, competenza e aggiornamento. Una distorsione del
sistema innescato dalle leggi Merloni impedisce poi di migliorare quelle
mediocri proposte comunali riducendo le garea miglioramenti sui materiali e
sull' energia. Il centro della premialità diventa ora la dimensione economica
piuttosto che quell' architettonica ed estetica. La preferenza data alle gare
d' appalto piuttosto che ai concorsi di architettura risponde anche a un'
esigenza politica delle amministrazioni: incapacità di scelte di lungo periodo,
impellenza data dalle scadenze dei finanziamenti, desiderio di avere mano
libera nel cambiare i progetti in corso d' opera piuttosto che avere un
progetto dato e fissato vincitore di concorso. Eppure, anche in quei pochi casi
di concorsi pubblici espletati, le istituzioni non sono solerti nell' assumersi
la responsabilità della trasparenza delle scelte in relazione all' abbandono o
ai cambiamenti che i progetti subiscono. Per esempio non è noto perchéa Napoli
il progetto per il porto di Euvè è stato abbandonato, perché è stato variato il
progetto di Cellini per Bagnoli, perché è stato messo in archivio il progetto
per il rione De Gasperi a Ponticelli. Non solo quindi serve più trasparenza tra
amministrazione e cittadini nella trasformazione della città, ma nel caso dello
spazio pubblico tale trasparenza e partecipazione è indispensabile. Non si può
porre mano allo spazio storico della città senza fare concorsi e senza
dibattito pubblico. Dare incarichi diretti, approvare progetti pubblici come se
fossero privati, non è una pratica che stringe il rapporto tra città e
cittadini. Crea sospetto e irresponsabilità e un senso di città privata che non
è ciò che si vuole. Mi riferisco alle piazze invase (o abbellite secondo alcuni)
dalle stazioni della Metropolitana, alle piazze che lo saranno tra poco (piazza
Santa Maria degli Angeli e piazza Nicola Amore), al restauro e ri-uso di
importanti monumenti nel centro storico, al restauro e riuso di edifici della
Mostra d' Oltremare. Si fa un gran parlare dei beni comuni, di acqua, mare,
montagne e paesaggi, come di beni fondativi della società che li usa e li vive,
ma anche i beni pubblici, come abbiamo visto, sono fondanti la storia di una
comunità e ogni loro trasformazione va attivata e condivisa.
Repubblica NA 25.7.2012