sabato 18 giugno 2011

Formazione post laurea

Mai come oggi la formazione post- laurea interessa cosi tanti laureandi e laureati; oltre il 50% frequenta tirocini o stage dentro o fuori l’università, mentre vengono sempre più trascurati masters e dottorati: questo in estrema  sintesi il quadro che emerge dall’inchiesta Alma Laurea 2010 di cui parleremo meglio in seguito.
E’ evidente che da un lato il valore reale della laurea si è ridotto notevolmente e poco serve per entrare nel mondo del lavoro, dall’altro, il mercato ha innalzato le sue richieste e chiede specializzazioni e professionalità che la laurea non  riesce ad offrire: insomma una laurea che si dequalifica e un mondo del lavoro poco disposto a  investire in tempo e soldi per la formazione dei suoi dirigenti e tecnici.  
Conferme arrivano da più parti. In una recente intervista giornalistica diversi
 “ cercatori di cervelli” per conto di grandi aziende di livello europeo, raccontavano come esse non ritenessero più come importante il voto di laurea o il regolare corso degli studi ma soprattutto cercassero giovani laureati con  frequenza di stage in azienda e formazione pluri-diretta anche fuori il campo specifico dei loro studi universitari.  Anche il Censis è dello stesso avviso: basta corsi inutili meglio fare praticantato in azienda.

In questo quadro che statistiche e autorevoli opinioni confermano cosi come le frequenti disillusioni pubbliche che molti giovani affidano ai media, va aggiunto che l’università sembra molto più preoccupata di se stessa come struttura che della validità della formazione che offre e della sorte dei  suoi laureati.
L’università appare schiacciata  come non mai da tensioni opposte tese da una parte ad una sua re-interpretazione  quale azienda speciale di ricerca e formazione di eccellenza e dall’altra quale scuola di massa con profili soprattutto didattici. Ridimensionata da significative, anche se non drastiche,  riduzioni di soldi pubblici e di docenti, essa è  intrappolata da logiche rivendicative, da lobbies professorali,  da impermeabilità a valutazioni esterne ad essa intorno  sia  sui metodi di promozione dei suoi dirigenti (lo sono tutti i professori)  sia sui  risultati conseguiti nel mondo del lavoro, delle professioni e della ricerca. Una risposta, già in corso in alcune realtà del nord est, è la creazione di poli universitari con enti pubblici territoriali, aziende e mondo bancario. Una specie di uscita dall’ambito pubblico verso un ambito pubblico-privato teso a superare la riduzione dei finanziamenti, attrarre studenti, mettersi in concorrenza con altre università  in una prospettiva federalistico – territoriale che probabilmente lascerà al palo, nel futuro prossimo, le università “ tutte pubbliche”.
Appare quindi molto sfasato l’attuale dibattito sui modi del rinnovo della docenza e della governance dell’università pubblica che non sarà sufficiente ad arrestare l’attuale degrado del valore della laurea dimostrato dalla crescente richiesta di ulteriore formazione  postlaurea sui cui  l’Università  pubblica poco investe.
Ogni facoltà e ogni Ente fa da se in questo campo post laurea, in un mercato dove mancano politiche e criteri nazionali di verifica della qualità, degli obiettivi proposti e raggiunti e dei costi complessivi.  E’ veramente difficile per un laureato scegliere un master o uno stage, valutarne la sua utilità, capire se gli obiettivi proposti sono frutto di retorica  propagandistica o vicini alla  realtà.
Purtroppo i dati disponibili sulle università italiane (Alma Laurea 2010) non raccontano la qualità dei masters o degli stage o dei dottorati ma solo quella dei tirocini obbligatori. Nemmeno è monitorata la qualità ed i risultati occupazionali dei Corsi di formazione professionale che, notoriamente ben finanziati dalla politica,  sono gestiti dalle Regioni.

Nelle università i tirocini sono organizzati dalle facoltà sia all’interno che all’esterno  di essa con apposite convenzioni che di solito prevedono un monte ore  tra 250 e 400.
Il tirocinio obbligatorio, di tipo formativo e di orientamento, viene riconosciuto con circa 9 crediti, al pari di  un esame importante. La scelta degli studenti è orientata a privilegiare i tirocini esterni in aziende pubbliche, private, Ordini,  evitando  invece quelli interni poco qualificanti perché tenuti dagli stessi docenti che fanno didattica.   Naturalmente ci sono eccezioni e situazioni come le Cliniche e le facoltà con Laboratori conto terzi.
Ad architettura per esempio pochi scelgono i tirocini all’interno delle facoltà, circa il 9%, mentre il 18% sceglie quelli in Enti pubblici e, la maggioranza, circa il 65%, opta per quelli  in aziende private /studi professionali;  quasi nessuno sceglie gli Enti di ricerca  anche perché sono  come mosche bianche.
Sorte infelice sta accadendo ai dottorati di ricerca, formazione d’eccellenza nella ricerca universitaria e  una volta  banco di prova della qualità di una facoltà e dei suoi docenti. La riduzione delle borse di studio, la poca ricerca praticata dai dottorandi “senza borsa” e l’inutilità pratica del titolo al di fuori dell’università  stessa, stante la mancanza di Enti di ricerca sul mercato, li hanno trasformati in  una specie di scuola di formazione magistrale per futuri docenti ed,  in attesa,  in piccolo sostegno  didattico a professori  ormai privi da tempo di  assistenti.
Incredibilmente anche i masters hanno vita difficile, anche se va detto che i dati nazionali non riflettono, anzi oscurano, singole valide esperienze di alta qualità; ma la variabilità e spesso l’evanescenza dei loro contenuti, in mancanza di riscontri nazionali e di un certo valore d’uso, ne hanno fatto perdere di molto l’appeal.
Se si guarda all’offerta formativa appare evidente che sono poco credibili quei masters che propongono formazione in campi dove il territorio di appartenenza della facoltà non eccelle, dove non si riscontrano aziende innovative interessate, o dove la qualità della proposta si regge su figure di spicco ma non di stabile presenza. Ogni facoltà ha la chiara percezione in quali masters potrebbe eccellere anche sul piano di una concorrenza nazionale, ma essa non esercita politica di indirizzo né di coordinamento per lo meno regionale;  il suo compito sembra limitarsi alle lauree ed è già segno di qualità se riesce a mitigare corsi di  laurea strampalati o privi di una struttura  stabile di insegnamento.
Sugli stage mancano dati statistici sulla frequenza e sulla qualità, e questo è già un dato significativo; essi riguardano i laureati  che svolgono attività senza compenso, in aziende convenzionate con l’università per un periodo da tre a sei mesi. Non ci sono inchieste sull’uso effettivo di questi laureati, si dice che lo stage incrementa le possibilità occupazionali di un 6%. Occorrerebbe una certificazione di qualità delle aziende che impiegano gli stagisti, se si vuole che l’apprendistato sia poi spendibile sul mercato.
Circa il 45 % dei laureati architetti si inserisce  in un mondo professionale di  140.000 professionisti: la più alta concentrazione europea di architetti per abitante. Ma  a tale grandissimo numero vanno aggiunti - l’Italia è l’unico paese europeo ad avere cosi tante figure che si occupano di edilizia - gli ingegneri edili, i nuovi ingegneri-architetti,  i geometri. Vanno ancora sommati i nuovi arrivati con le lauree triennali, architetti e ingegneri che, in mancanza di una chiara normativa circa le loro competenze professionali - un colpevole lassismo del Ministero e degli Ordini - esercitano, di fatto, il mestiere privato dell’architetto quinquennale. 
I dati disponibili sulla formazione postlaurea dal 2002 al 2009 (AlmaLaurea 2010) ad Architettura mostrano un notevole trend di crescita dei tirocini e degli stage arrivati ad una percentuale di  tirocinanti   pari al  17%  dei laureati,  di stagisti pari al 21 %, mentre è sorprendente  il trend in continua discesa nella scelta dei dottorati  ( 5% ), dei masters ( 4%) e dei Corsi di formazione professionale ( circa 10%.).

Vale la pena infine fare qualche osservazione sull’Esame di Stato, primo passo che dall’Università porta nel mondo del lavoro e all’iscrizione negli albi professionali.  E’ noto che tutti i laureati lo sostengono quanto prima possibile e vagano da sede in sede per poterlo superare più agevolmente. Ad alcune professioni viene richiesto prima dell’esame, un tirocinio professionale che, nel caso degli avvocati, raggiunge i due anni.
L’esame  di stato è gestito malissimo da Università e Ordini, quasi fosse espressione di un retaggio corporativo reso ancora più difficile (legge 328/2001) con addirittura 4 prove da svolgere.  La cattiva e irresponsabile gestione dell’esame (commissione composta da 5 membri, tre proposti  dagli Ordini e due, compreso il Presidente, proposti dall’Università) che consente l’iscrizione all’Albo professionale  è il prodotto di un totale disinteresse formativo. Nessuna seria preparazione viene fornita su  materie prettamente professionali come legislazione, normative  e  tecnica. In compenso, nonostante le 4 prove previste , e con colpevole cinismo soprattutto in un mestiere come l’architetto che costruisce nel e per il sociale, la grande maggioranza dei laureati lo supera senza aver fatto in sostanza una minima pratica in studio.

I dati statistici forniti da Alma Laurea fotografano una realtà di laureati che si sta orientando diversamente dalle principali proposte di formazione post laurea delle Università pubbliche. Essi cercano formazione specialistica e apprendistato e poco sono attratti dalle offerte standard delle Università, come dottorati e masters. E’ evidente che è necessaria una diversa politica sulla formazione: il pezzo di carta non serve più e il valore legale del titolo di studio si è quasi liquefatto. Considerando poi che le aziende non hanno più voglia di investire, come una volta, tempo e denari per formare manager e tecnici e li vogliono “pronti all’uso”, il necessario completamento della formazione ricade, alla fine, sui singoli laureati.
Il Censis sostiene la necessità di un grande piano nazionale sulla formazione in azienda ma bisognerebbe anche rinnovare i programmi ed i metodi dei corsi universitari e i loro docenti se si vuole una università  pubblica che, avvicinandosi alle aziende,  aumenti la spendibilità dei suoi titoli sul mercato del lavoro. La mancanza di una proposta di qualità, governata e monitorata sulla formazione post laurea ne è forse il più chiaro segno. 
Modifiche di governance e razionalizzazioni interne non bastano all’università pubblica per superare  i limiti della vecchia cultura del monopolio formativo.
La spesso perdente competizione con le università straniere , il tempo lungo di una formazione generica , poco stringente e poco selettiva, la mancanza di aggiornamento dei docenti e dei programmi, il proliferare di corsi inutili e la disattenzione alle richieste del mercato e alla formazione post laurea , sono tutti fattori di grande indebolimento dell’eccellenza dell’ alma mater studiorum italiana.
pubblicato su ATENAPOLI del 10/2010